Centri e Musei. #2
Design

ginepraioAmmettiamo che stavamo per cacciarci in un ginepraio. Avevamo deciso di parlare di centri e musei, come differenti tipologie di istituzione, con differenti obiettivi e caratteri, e, preso l’avvio dai science centres e dal libro di Basso Peressut, stavamo per perderci, a inseguire altre idee, ad aprire altre finestre – in specie sui rapporti, anche museali, fra design, arti decorative e tecnologia. Non che sia stato inutile da quel testo partire. Ma sarà bene procedere per piccole osservazioni e aggiunte, eventualmente appendendo qua e là altrove, a nostra futura memoria, qualche appunto, brandello o briciola, insomma citazioni e suggestioni che ci ricordino – dato che sempre in questo ginepraio per un po’ ci muoveremo – da quale parte ancora possiamo andare.Dunque, con ordine, restiamo fra centri, musei e design. Abbiamo detto qualcosa sui centri e specificamente sui >science centres che rappresentano un modello per queste istituzioni. Ma va subito detto che passando ora al campo del design i centri rappresentano realtà differenti, anche se possiamo assumere che in generale i centres sono luoghi strettamente collegati al presente, all’attualità, all’aggiornamento, a una forma ampia di sostegno che va dalla didattica alla promozione.Ebbene, nel caso del design, i centri (come anche i councils), assenti concetti e sperimentazioni da mettere in scena, hanno propriamente una spiccata e costitutiva vocazione promozionale, sia verso l’esterno/estero sia verso l’interno di una nazione o regione, con attività di informazione, consulenza, coordinamento e, talora, indirizzo che mirano a supportare e favorire il “sistema” degli operatori del settore – dai progettisti agli studenti, agli imprenditori ecc. – e il ruolo della cultura progettuale all’interno della società e dell’economia.Se pure non esista un modello codificato, e si possano fare distinguo e rilevare molte sfumature – per esempio centri che si occupano di design in quanto tale e non necessariamente “nazionale”, oppure centri che hanno la forma di un’associazione, altri che sono sostenuti direttamente dal governo o da qualche ministero (economia o cultura); centri che hanno funzione di solo front office, altri che sono sede di molteplici iniziative e anche di collezioni/musei/mostre; e ancora paesi come la Germania che rispecchiano l’interna organizzazione territorial-amministrativa nella presenza di diverse istituzioni, e così via – un’occhiata a quel che avviene in Europa consente già di chiarirsi le idee. Alcuni esempi – includendo qualche council e qualche caso “promiscuo”:Austria, design in AustriaBelgioDesign FlandersDanimarcaDansk Design CentreFinlandiaDesign Forum FinlandFranciaCCI/MNAM: Centre de Creation Industrielle, Centre PompidouCentre du Design Rhône-AlpesGermaniaDesign Initiative Nord e.V.Design Zentrum BremenDesignLabor BremerhavenDesign Zentrum Hessen e.V.Designzentrum Ludwigshafen e.V.Designzentrum Mecklenburg-VorpommernDesign Zentrum MünchenDesignzentrum NRWDesignforum Nürnberg e.V.Design Center StuttgartHamburgunddesignIDZ Internationales Design Zentrum Berlin e.V.iF Industrie Forum DesignRat für Formgebung / German Design CouncilOlandaPremsela, Dutch Design FoundationNorvegiaNorsk Form, DogA, Norwegian Design and Architecture CentreNorwegian Design CouncilDogA Norwegian Centre for Design and ArchitecturePortogalloPortuguese Design CenterRepubblica cecaDesign Centrum of the Czech RepublicSpagnaBAI berrikuntza agentziaagencia de innovación (ex DZ centro de Diseño) Barcelona Design CenterSoc. Estatal para el Desarrollo del Diseño y la InnovacionSveziaSvensk FormSwedish Industrial Design FoundationSvizzeraDesign CenterUKBritish Council / Design team / Arts GroupDesign Wales / PDR (National Centre for Product Design & Development Research)The Design CouncilThe Lighthouse, Scotland Centre for Architecture, Design and the CitySi segnala, fra l’altro, che dal sito di Design Vlaanderen tra le pubblicazioni rese disponibili e scaricabili c’è uno studio comparativo, concluso nel 2003, proprio sui design centres in Europa. Italia assente, neanche a dirlo… Pur essendoci fra i 63 centri contattati anche uno (o più?) italiano – ma non sappiamo quale sarebbe il centro italiano cui si riferisce lo studio; forse l’Associazione per il disegno industriale? – questo però rientra fra quelli che hanno dichiarato la loro estraneità al tipo di indagine o che non hanno consegnato i risposte e documenti in tempi utili per l’indagine.Al di là di chiedersi quale sia il “centro” italiano contattato, deve esser ricordato che, oltre a non avere ancora, o quasi, il suo Museo, l’Italia non ha neppure il suo centro/centre, e questo è stato in effetti il nostro punto di partenza allorché abbiamo deciso di segnarci qualche appunto su centri e musei. Sì perché ci pare che in un terreno ancora poco agito nei fatti ma sovente percorso da dichiarazioni e proposte (particolarmente quelle – ci pare, peraltro, d’accento più romano o piemontese che lombardo – in cui si fa riferimento al made in Italy) si corra il rischio di confondere le acque o i termini; insomma: gli obiettivi e le funzioni.Ci sembra insomma che la duplice prolungata mancanza possa generare confusione, laddove alcuni, parlando di “museo del design”, talvolta dimostrano di intendere in realtà un centre, sul modello degli eccellenti casi stranieri. Su questo aspetto si ricordi per esempio quel che ha dichiarato Giulio Castelli intervistato per una delle Lezioni di design di Rai Educational. Se appariva, allora, avanzata – ma da rivedere – la proposta di museo virtuale quale egli la intendeva («perché è molto più interessante avere un museo virtuale. Oggi con i mezzi che ci sono, sul virtuale vedere tutto e avere la possibilità poi di accedere a questo pezzo. L’ideale sarebbe avere davanti un bel visore, vedere tutti i prodotti, vederli schiacciando, facendo girare il mouse, vedere la storia di un designer o dei disegni tecnici di questo prodotto e poi schiacciando un bottone che questo prodotto possa venire davanti e poterlo guardare realmente»), ci pare ci si debba quanto meno soffermare sugli obiettivi di fondo che egli indicava in quella sede per il museo del design italiano. Dichiarava infatti: «penso che debba essere […] il luogo dove si possa arrivare a discutere di design in una maniera problematica e dove possano avvenire degli incontri, come si fanno all’Adi, tra i designer e i produttori e che ogni mese ci sia un avvenimento. Deve essere anche al corrente di quello che succede nel mondo, insomma deve essere una cosa viva. […] Adesso noi abbiamo dato in gestione il Compasso d’oro al centro di Cantù e almeno ho la soddisfazione che questa organizzazione riesce a portarli in giro per il mondo e quindi a fare un movimento di propaganda per il design italiano e questo naturalmente è una cosa sempre possibile e sempre giusta. […] Un museo fermo e statico, dove la gente passa e guarda i prodotti, specialmente di design industriale, mi sembra una cosa ormai superata». Ora, siamo d’accordo che il museo non debba essere “fermo e statico”, e del resto nessun museo, proprio in quanto tale, dovrebbe esserlo come abbiamo già altrove rammentato; e concordiamo che, luogo della memoria, il museo – soprattutto se del design – guarda e si rivolge al presente. Tuttavia l’immagine che si riflette da tali parole – i produttori e i designer che si incontrano, le mostre organizzate per promuovere all’estero il design e le aziende italiane – è quella di un design centre piuttosto che di un museo.Ugualmente si può dire in relazione a quanto ha scritto Giancarlo Iliprandi, Riconoscere il design, in “ALIdesign”, allorché segnala che il mancato riconoscimento della professione del designer può essere attribuita fra l’altro all’assenza, allora, di un museo del design, che però così descrive: «Il quale non fosse unicamente un luogo di raccolta, conservazione ed esposizione dei prodotti. Bensì operasse come laboratorio, ottimizzando i rapporti tra mondo accademico e mondo della professione. Ma soprattutto ponesse in giusta evidenza la potenzialità del design e la sua centralità nel complesso sistema socio-industriale». Anche in questo caso, senza voler disconoscere la necessità di quanto indicato dall’autore, se è anche nostra convinzione che del design si debba raccontare e fare conoscere il ruolo all’interno di un ampio sistema, tuttavia non si comprende perché le funzioni del “museo” vengano ripetutamente fraintese o semplificate, quasi che raccogliere, conservare ed esporre fossero operazioni automatiche, mentre invece sono l’elaborazione, lo studio e la ricerca che le animano e sostanziano, producendo cultura. Se questo non avviene, non per ciò si deve “buttare via il bambino con l’acqua sporca”. Ammesso che oggi il museo non rispecchia più l’istituzione moderna che uscì dall’epoca della Rivoluzione francese, che il museo è una realtà complessa e mutevole («mutevolezza nell’apparente rigida stabilità», Pietro C. Marani, Rosanna Pavoni, Musei, Trasformazioni di un’istituzione dall’età moderna al contemporaneo, Marsilio, Venezia 2006, p. 10), che non esiste una forma/formula unica poiché ogni museo esige il proprio progetto, ci pare però che ciò non dovrebbe indurre a snaturare l’istituzione – magari elevando a questione generale le problematiche di casi singoli o tendenze temporanee. Sovente pare che si desideri fregiarsi del manto del museo come di un titolo nominale, un contenitore neutro del quale si possa fare e dire ciò che si vuole, a seconda delle intenzioni. Ma, anziché tirare la coperta fino a strapparla e farle perdere forma e identità, ci sembra che sia opportuno verificare e rendere effettive quelle caratteristiche essenziali dell’istituzione-museo che spesso sono rimaste disattese: ricerca, studio, elaborazione culturale autonoma, aggiornamento. E questo vale non solo per il caso del design, naturalmente.Dall’altro lato, sempre con riferimento alle note di Iliprandi, se pure non ci nascondiamo che un (certo) museo del design italiano potrebbe e dovrebbe avere significativo ruolo nel promuovere l’immagine del “sistema” italiano – su questo si veda anche l testo di Giovanni Pinna Delusioni e speranze per i musei milanesi scaricabile online – non crediamo però che un museo debba avere la funzione diretta e costitutiva di ottimizzare «i rapporti tra mondo accademico e mondo della professione». Funzione che invece troveremmo adeguata e necessaria in un design centre, o council.Come già abbiamo scritto, se gli obiettivi sono di creare un luogo/ente di produzione culturale, attuale e contemporaneo, una sede per incontri e conferenze, allora lo si chiami centre e non “museo”. Resta d’altro canto da esplorare che cosa si può fare in un museo del design, e che cosa si può fare con il design nel museo.

Letture domenicali
Object Lessons

sunday_bookIl libro nell’immagine qui sopra è un esempio di “Sunday Book” d’età vittoriana. Ricaviamo l’informazione da un sito per la verità non molto ricco ma interessante fin dal titolo, www.objectlessons.org, che appunto fornisce alcune “lezioni” – schede – dedicate a oggetti di varie epoche. L’iniziativa è della Islington Education Library di Londra, una cui sezione è la Artefacts Library che – rimandando a Confucio: «Se sento dimentico, se vedo ricordo, se faccio comprendo» – promuove «object handling, an active form of learning that engages and inspires pupils and students and enriches the classroom». Le collezioni includono differenti oggetti, dalle maschere dell’Amazzonia alle carrozzine per bambini, da scheletri – alcuni veri, altri di plastica – a polli fabbricati con plastica riciclata, costumi… tutti a disposizione per gli insegnanti, per raccontare storie e completare con un tocco e più di realtà i programmi didattici. I docenti possono richiedere in prestito i materiali, registrandosi e compilando una scheda, ma una parte dei materiali è resa visibile e accessibile online, nel sito Object Lessons (fra l’altro uno dei 150 siti sovvenzionati con i fondi della lotteria).Qui gli oggetti sono presentati sotto sette temi – abiti, casa, lavoro, infanzia, salute, conflitti – a loro volta suddivisi in periodi storici oppure secondo i continenti e le culture d’origine. I criteri non sono del tutto rigorosi, così un aspirapolvere Hoover si trova sotto “lavoro” mentre un ferro da stiro si trova sotto “casa” –, e anche i “quadri interattivi” non sono propriamente eccellenti. Tuttavia, forse proprio il carattere contenuto dei materiali presentati e la contestualizzazione del loro uso proposta nelle schede invitano a soffermarsi un poco.Per esempio con riferimento al libro nell’immagine viene spiegato che in età vittoriana la domenica doveva essere rigorosamente dedicata al riposo, come la Bibbia raccomandava; no lavoro, negozi chiusi, niente sport – o tempora o mores? –, ma anche niente disegno o pittura, sicché la lettura rimaneva l’unico passatempo concesso, dopo la chiesa, per i pomeriggi domenicali. Per i bimbi, in particolare, però, solo poche letture erano consentite, come il libro qui sopra, del 1890, il cui carattere moraleggiante s’intuisce già dai contenuti: due bambini che fanno l’elemosina per i poveri, fuori dalla porta di una chiesa.Domani è domenica: si legge!

Centri e Musei. #1
Scienza e tecnica

nemo_amsterdamAvevamo già detto qualcosa in merito riferendo del convegno sul lessico dei Musei storici, laddove scrivevamo – con riferimento alla proposta che i musei storici, appunto, si facessero centri di elaborazione del contemporaneo – che «se un istituto diventa un centro, se opera come un centro, allora è un centro e non un museo (il che peraltro non significa, poi, che un museo e un centro non possano essere prossimi e collaborare da presso; ma son due cose distinte)». Torniamo sul tema, che non può essere ignorato, anzi, e cerchiamo di precisare, con riferimento poi a quel che è di nostro interesse, il design. Alcune brevi considerazioni preliminari.Non è detto che un museo e un centro non possano convivere (ci viene in mente per esempio quanto coesiste nel Science Museum di Londra). Non è che non si tema di cadere in (o far crescere) questioni oziose o di aprire una serie di finestre infinita, o ancora di confondere i piani. Non s’intende, peraltro, sostenere una posizione pro/contro l’una e l’altra tipologia di struttura. Ma, in primo luogo, da qualche parte dovremo pur cominciare a ragionare; inoltre, in un’ottica che si faccia anche propositiva e progettuale, ci pare importante che si tenti di chiarire, distinguere e precisare ruoli e funzioni, per avere una griglia di lettura nella teoria e nella pratica.Un museo, di per sé, non è “semplicemente” un luogo di polverosa conservazione, ma è, o dovrebbe essere, un luogo di elaborazione culturale, a partire dal proprio patrimonio, di cui offre e diffonde interpretazioni, valorizzandolo. Per cui per essere “centro di elaborazione” dei propri contenuti non avrebbe bisogno di cambiar nome e chiamarsi “centro”, giacché, anzi, «un museo che non sia anche un istituto di ricerca scientifica, capace di elaborare culturalmente il proprio patrimonio e di dare un senso alle proprie esposizioni, non può essere considerato museo», come scriveva il già da noi molto citato Giovanni Pinna (Il museo come produttore di cultura, in Adalgisa Lugli, Giovanni Pinna, Virgilio Vercelloni, Tre idee di museo, a cura di Giovanni Pinna, Jaca Book, Milano 2005).Quelli che nascono come e si chiamano propriamente “centri”, viceversa, sono generalmente distinti dai musei. Perché? Principalmente perché non possiedono una collezione storica – e l’aggettivo “storica” è determinante, poiché accade certo che una qualche forma di collezione o raccolta di oggetti o strumenti si trovi pure in un centro, utilizzata però per i fini primariamente didattici e di sperimentazione dello stesso e non per fini di conservazione e valorizzazione (oggetti e strumenti ci sono, eccome, vedi per esempio la foto scattata al Nemo di Amsterdam; la differenza è nelle finalità, negli obiettivi). Quelli dedicati alla scienza – che costituiscono un modello per queste strutture (e si veda il sito di Astec, Association of Science – Technology Centres) – si caratterizzano «per l’uso di exhibits creati appositamente per la comunicazione di concetti astratti ed esperimenti propri del sapere scientifico» (Luca Basso Peressut, Musei per la Scienza. Spazi e luoghi dell’esporre scientifico e tecnico / Science Museums. Spaces of scientific and technical exhibition, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1998), ovvero per la qualità sperimentale e interattiva della struttura, degli allestimenti e dell’offerta dei contenuti, affatto lontana da impostazioni celebrative e da vetrine con-chiuse per lungo tempo o una volta per tutte.[1]Aggiungiamo, ma è evidente, che stretto è il legame dei centri con l’attualità, la contemporaneità, il presente e il futuro, e in questo essi rappresentano sul piano espositivo e divulgativo – rispetto a un museo d’impostazione storica – le teste di ponte per i settori particolarmente caratterizzati da continue scoperta ed evoluzione. Come, appunto, la scienza, specialmente laddove si salda con la tecnica e la tecnologia. Queste considerazioni, del resto, ci parlano di una questione che riguarda e parte dai musei stessi, e che s’innesta nel vivo del confine/rapporto fra centro e museo.Seguiamo per un momento, o meglio per qualche pagina, Basso Peressut, che – prima di concludere l’Introduzione ponendo l’accento sulla necessaria contestualizzazione dei saperi che i musei devono mettere in atto per mostrare che le scienze e le tecniche costituiscono un sistema relativamente aperto, spostandosi verso un approccio che avvicina alla storia della società nel suo complesso – pone un altro tema fondamentale per queste istituzioni: «A differenza dell’arte [come segnalava Thomas Kuhn], la scienza distrugge il suo passato. I tempi della scienza e della tecnica, legati alle dinamiche di mutamento della ricerca e della produzione, e i tempi del museo, legati alla sedimentazione e alla riflessione, possono solo in parte coincidere. È infatti una condizione curiosa quella del museo scientifico, fin dalla sua nascita: testimoniare il “progresso” ma esserne continuamente scavalcato, parlare di contemporaneità ma scivolare continuamente nella storia. Come può il museo, per definizione espressione di una permanenza di valor, prestarsi a creare stabili forme dell’esposizione della cultura scientifico-tecnica che non vogliano essere solo celebrazione e “memento” ma essere fattivi strumenti di rispecchiamento del procedere del pensiero scientifico e tecnologico? La risposta non è semplice, proprio perché, come evidenziava Karl Compton [MIT] alla fine degli anni Quaranta, “se cercate di fare un museo di tutte le scienze, il vostro edificio si espanderà per miglia. E quando sarà completato per un quarto, la prima metà delle esposizioni sarà obsoleta”. Il museo scientifico, in quanto organismo architettonico è “risorsa finita”, deve perciò selezionare e sedimentare contenuti, programmi e progetti in funzione della propria identità […] ma al contempo presentarsi come istituzione in continuo divenire, nel tempo e nello spazio, cioè essere struttura disponibile a possibili e necessarie modificazioni di contenuti e forme» (ivi, p. 16). Nella storia non lineare e variegata dei luoghi preposti all’esposizione scientifica e tecnologica si ritrovano, più o meno patenti e consapevoli, tali tendenze. E sebbene non si tratti di una evoluzione univoca dei tipi, tale che l’uno soppianti l’altro, è pure ravvisabile un tracciato che va dalla mera raccolta ed esibizione alla dimostrazione articolata, dalla esposizione e dall’insegnamento per esemplarità alla sperimentazione, ovvero dagli oggetti ai concetti (le vicende sono ben altrimenti complesse, e oltre che l’Introduzione ne rendono conto gli altri capitoli di questo ricco volume).[2] Basso Peressut dedica un paragrafo a Oggetti e concetti, ed è qui che scrive: «Se escludiamo i musei di storia della scienza oggi esistenti […] che si collocano, per loro carattere, al di fuori del tempo e al di sopra della storia, per gli altri musei [della scienza] il moto incessante della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnico-produttivo rende con sempre maggior velocità vecchio e inutilizzabile ciò che solo ieri era nuovo, attivo» (ivi, p. 32), al punto che gli studiosi e scienziati sono i primi a disertare tali luoghi.Per cui «i musei scientifici oggi, schiacciati fra peso della storia e urgenze della contemporaneità esprimono con difficoltà il proprio ruolo». È in «questa incertezza epistemologica [che] si collocano anche i science centres» (ivi, p. 33) che, sviluppatisi ma resisi autonomi dai musei, hanno posto, «all’attenzione della cultura museografica ed espositiva il concetto di museo come medium di pura comunicazione in mancanza di oggetti di significato storico». Ecco il punto: «il fatto che si possa creare un museo senza partire da un insieme di materiali collezionati fa mancare quella condizione, storicamente data, che presiede all’origine dell’istituzione museale. Un science centre è notoriamente un luogo per esporre non oggetti, ma concetti […]». Ma appunto o il museo muta nelle sue connotazioni fondamentali, oppure il centro non è un museo, bensì un centro.Per quel che riguarda il volume di Basso Peressut, avendo l’autore fin da principio sottolineato il carattere multiforme di tipi e prototipi dei luoghi dell’esporre e del comunicare scientifico, una sezione è dedicata proprio a queste strutture: “Palazzi delle scoperte: i musei della comunicazione scientifica” (ivi, pp. 95 ss).Per quel che riguarda noi, ci permettiamo ancora di rilevare una sorta di irriducibile difficoltà a distinguere, o a tenere distinte, l’una e l’altra tipologia di istituzione; e certamente ciò è dovuto ai fatti, all’origine e al progetto di luoghi e funzioni, ai casi di enti in cui l’apparenza espositiva del museo si mescola con la reale attività del centro (chi sa, forse anche viceversa). Ma, ricordiamo, una esposizione di oggetti di per sé non è necessariamente museo; si può parlare di esposizione, raccolta, collezione… (e forse queste distinzioni potrebbero tornare utili anche per esempio nel caso di alcuni cosiddetti “musei d’impresa”). Fra gli esempi portati da Basso Peressut troviamo il Tepia, Centro per la scienza e l’alta tecnologia di Tokio (progettato da Fumiko Maki Ass., 1989): «Tepia si caratterizza come centro di informazione, documentazione ed esposizione di prodotti di alta tecnologia destinati alla comunicazione. È anche un centro di dimostrazione e di incontro commerciale. Nel centro-museo Tepia vengono organizzate mostre e dimostrazioni di macchinari avanzati, conferenze, attività didattiche […] Lo scopo è quello di promuovere lo scambio di conoscenze e informazioni aggiornate tra professionisti, ricercatori e pubblico generico [i corsivi sono miei]». Dopo aver detto che il centro include, oltre alle aree espositive/gallerie, una videoteca, sala conferenza, ristorante, club e piscina, le parole che concludono la scheda sembrano esprimere quella difficoltà di cui dicevamo: «… un edificio espositivo-comunicativo che certamente poco si lega all’idea tradizionale di museo».Il volume di Basso Peressut è ricco di stimoli, che consentono di trarre interessanti riflessioni. In vista di quel che potremo poi tentare di dire con riferimento al design, ci pare importante fissare alcuni dati: il fatto che la documentazione e la narrazione di discipline come scienza e tecnica costringe a un costante confronto con il presente, laddove quel che da un lato è aggiornamento può significare dall’altro obsolescenza; il fatto che, in ragione dei contenuti, i musei di scienza e tecnica, rispetto ad altre tipologie, hanno posto presto il problema della flessibilità e della trasformabilità degli spazi (si veda per esempio ivi, pp. 54 ss); il fatto che esiste una consistente parte storica, che si nutre di un selezionato presente, che deve continuare a essere sedimentata ed elaborata, e che ancora può e deve essere arricchita giovandosi di approcci sistemici capaci di contestualizzazioni di ampio respiro (pp. 36 ss). Ovvero infine, ci pare di poter ricavare, il fatto che se la comunicazione della scienza e della tecnica, in specie per quel che pertiene ai concetti e alla sperimentazione contemporanea, può vestirsi di altre forme – quelle delle mostre temporanee e dei centres spettacolari –, queste devono darsi in aggiunta e non in sostituzione delle strutture storiche. Perché se è vero che la scienza distrugge il proprio passato (Kuhn) i musei sono lì proprio per raccontare anche quel passato, nelle sue espressioni materiali e nelle implicazioni immateriali.[1] Ragguagli sui centri per la scienza o science centres si trovano, fra l’altro, anche in un documento scaricabile relativo al progetto di fattibilità per un Grande Science Centre per il Friuli Venezia Giulia, del quale il Laboratorio dell’Immaginario scientifico di Grignano (Trieste) è il nucleo fondante. In tale documento si fa riferimento naturalmente all’Exploratorium di San Francisco, modello per simili strutture, nato dalla idea di Frank Oppenheimer, fisico e fratello di Robert, per un «moderno museo scientifico interattivo o science centre. […] L’idea nuova di cui Oppenheimer si faceva portatore era l’interattività tra visitatore e oggetti messi in mostra, non più soltanto da guardare, ma concepiti piuttosto come installazioni da manipolare al fine di realizzare un esperimento. L’utente del museo, da soggetto puramente contemplativo, diventa quindi un protagonista che interagisce con l’exhibit (questo il nome dato alla struttura allestitiva in questione) ed è messo in condizioni di esplorare secondo un metodo che è proprio della scienza: quello sperimentale. […] La sua convinzione era che […] un livello sempre più diffuso di acculturazione scientifica fosse necessario proprio in una società avanzata e democraticamente organizzata e al cui consenso era ormai affidato il controllo del corretto uso dei prodotti finali della ricerca: un controllo che non poteva essere responsabilmente esercitato senza una diffusa conoscenza di base». Interessante notare, in riferimento alla convivenza/con-fusione di forme e funzioni, l’uso dell’espressione “museo scientifico interattivo” e il fatto che nel paragrafo 3.3.3 si parli del progetto “L’Altromuseo”, come possibilità – dato l’interesse di alcuni musei europei – di «creare una sorta di “museo dei musei” all’interno dell’esposizione triestina che ospiterà duplicati, versioni ridotte o allestimenti realizzati ad hoc provenienti dai diversi musei coinvolti nell’iniziativa. Le postazioni saranno costituite, a seconda dei casi, da punti informativi dotati di supporti digitali (CDrom, ipertesti, web publishing ecc.), da giochi e postazioni interattive o da exhibit hands-on». Ma, ancora una volta: “Altromuseo” o “Altrocentro”?[2] A questo proposito, con riferimento strettamente ai science centres, si veda anche quanto ricorda Thomas Krakauer (Museum of Life and Science, Durham, North Carolina): «Early on, we were still doing battle over “hands-on.” That discussion eventually crystallized as the concept of “first-generation” to “fourth-generation” institutions — with first generation being the collections-oriented science museum, and fourth generation moving from mere interactivity toward becoming a true center of constructivist learning» (“Dimensions”, 2004, maggio-giugno).

Memorie di cose
Non briciole insipide, ma un unico pane

gibelli_biciclettaLuciano Gibelli, Memorie di cose. Attrezzi, oggetti e cose del passato raccolti per non dimenticare, 2 voll., Priuli & Verlucca Editori, Pavone Canavese (Torino) 2004; in questi volumi, esito di un lavoro trentennale («una lunga […] ricerca – iniziata nel 1974 – svolta soprattutto in Piemonte», ma con prima edizione nel 1980; ivi, p. 45) e ricchi di disegni, dello stesso autore, viene svolto un vero e proprio racconto che sgorga dagli oggetti tradizionali, dalla cultura materiale di una regione, costituita del resto non solo dagli oggetti in sé ma da tutto quel che attorno a essi si è mosso e si può ancora muovere: ricordi, innanzi tutto, ma poi ricette, lavorazioni, narrazioni, usi, costumi, linguaggio, storia sociale… L’autore precisa che «il contenuto di questo lavoro non può essere letto come un romanzo, partendo dalla prima pagina, su un “filo” che si conclude e completa all’ultima; tutt’altro, in questo caso i termini sono capovolti: occorre partire dall’indice [oltre 30 pagine] per orientare il proprio interesse e soltanto così, forse, potrà accadere al Lettore sensibile di ricevere l’impressione che trasmettono gli oggetti; commuovendosi, appassionandosi, stupendosi, turbandosi, trepidando anche, come leggesse davvero un romanzo» (ibidem). Partendo dalla constatazione che «di antichi oggetti, procedimenti od altro talvolta non esiste un corrispondente vocabolo italiano […] così come a precise definizioni in italiano non corrispondono vocaboli in lingua piemontese», l’autore costruisce un testo che «non solo apparentemente […] procede senza soluzione di continuità. Ho voluto in tal maniera ritrarre il fascino del conversare che si faceva nelle veglie serali d’un tempo, vale a dire il non attenersi ad un argomento prefissato, senza sapere dove conducesse esattamente il discorrere mentre vagava da un fatto reale ad un ricordo» (ibidem). Nelle speranze di Gibelli, quel che ne esce è «un piccolo museo pieghevole, da tenere in un angolo della libreria». Nella libreria, ma, precisa subito dopo Gibelli, «se il caso desse che il Lettore possedesse una vecchia casetta in campagna ed accanto al camino vi sopravvivesse ancora una sia pur vetusta camminiera, ebbene questi fogli li metta in prima fila su di un ripiano, perché è lì il posto che spetta loro». Considerazione poetica e immaginifica, che invero molto dice su quel che un museo può o deve essere, su quel che può e dovrebbe fare con gli oggetti e i patrimoni che in esso si trovano, sottratti, strappati o comunque materialmente slegati dal contesto d’origine, proprio quel contesto che – in tutti i suoi aspetti – deve essere da essi testimoniato, raccontato, indagato, esposto, comunicato. I libri di Gibelli possono essere considerati allora un’opera museografica (del resto lo stesso autore parla di come «i problemi della sede, dell’organizzazione, della conduzione insieme a tanti altri impedimenti» abbiano ostacolato per lui e altri «Uomini meritori e Comunità previdenti» (ivi, p. 47), che tanti oggetti, attrezzi, mobili, vestiti, ecc., hanno raccolto sottraendoli al tempo e all’oblio). Senza per ciò voler finire con il leggere il museo come testo, l’oggetto come testo. È piuttosto il senso dello studio, della ricerca e dell’autorialità del curatore che ci interessa. Rigorosa e insieme appassionata, magari a tratti nostalgica – nel caso di Gibelli – ma consapevole. «E così, raccogli e conserva, raccogli ed ammucchia, oggi posso aprire il mio cofano affinché a tutti, per mezzo di questi fogli, pervenga il piacere che provavo io quando – approfittando dell’ora dedicata al pisolino – andavo nascostamente a frugare nel cassetto del Nonno – tutto suo – per far la conta dei bulloni, dei dadi, delle ranelle ormai inusabili che formavano il suo tesoro. Oggi più che mai» (ivi, p. 49).gibelli_mezzamanicaNon ci si stupirà di ritrovare nel “cofano” di Gibelli – oltre a piante ed erbe «usate in passato nei casi più disparati, talvolta incredibili», di cui pure egli ha raccolto e offre notizie, nella parte conclusiva del libro – le forme da burro come pure il giogo, la campana e il torchio a vite discendente, i polsini e lo stiratore litico, ma anche, fra le “schede” – tutte connesse nel fluire del discorso –, una dedicata al carrozzo: «antenato indiscusso del Go-Cart» la cui realizzazione «ci promuoveva tecnici, ingegneri, elaboratori, carrozzieri, piloti, cronometristi, giudici di gara ed Artigiani con l’A maiuscola [magari, aggiungeremmo oggi, pure designer]» (ivi, p. 583). Non si tratta però di scheda tutta abbandonata alla memoria d’infanzia e gioventù – come invece avviene maggiormente per quella dedicata alla “invenzione del motorino”, da parte di tal Masino Culasso «il 27 maggio 1936, vale a dire una decina di anni prima della nascita della Vespa, della Lambretta, del Cucciolo, del Mosquito e di tutti gli altri motorini» – ché Gibelli da solo si richiama: «bando alla poesia e via al linguaggio tecnico: DESCRIZIONE OGGETTIVA E CARATTERISTICHE», che segue puntualmente nel dettaglio di materiali, ruote, sospensioni, propulsione, snodo, freni, sedile.Non mancano all’appello la grattugia (gratusa comun) e il tostino (brusacafè), la macchina da caffè e il tirabrace, i chiodi e la zucca da vino (bot), ma si trovano anche unità di misura (diverse per ogni capoluogo di provincia) e addirittura le “istruzioni per l’uso del pesatore”, o ancora la mezzamanica (angagianta), su cui ci soffermiamo.Di questa Gibelli non solo dice che «era portata in ufficio dagli impiegati del tempo che fu e che anch’io ebbi ancora la ventura di conoscere, al mio primo impiego, opera della Mamma e dono per consacrare la mia trasformazione in lavoratore (d’Azienda Privata) con qualcosa di significante […] e per difendere le maniche della giacca nuova»; non solo nota che forse «pochi sanno che anticamente la Mezzamanica s’usava al singolare, montata solo sul braccio destro (ma il sinistro dove lo tenevano?), probabilmente per ragioni d’economia e forse il suo evolversi al plurale significò e fu la testimonianza misconosciuta d’un lento progredire sindacale, di traguardi salariali»; ma anche si spinge a «celebrare tutto ciò», a modo suo, dice, «con quattro notiziole storiche che devono aver influito parecchio sull’organizzazione del lavoro burocratico:- 1830: Celestino Galli, di Carrù (1804-1866), inventa il Potenografo, il primo congegno – si può dire – per scrivere premendo su dei tasti [a tal proposito si veda anche quanto descritto in Waldimaro Fiorentino, Sistemi di scrittura specialistica, in “Scienza e Tecnica”, LXVI, 2003, n. 394, giugno, a p. 16 scaricabile online];- 1855: Giuseppe Ravizza, avvocato, archeologo e storico di Novara (1811-1885), brevetta il suo Cembalo scrivano, macchina per scrivere a “scrittura visibile” realizzata fin dal 1846, presentata all’Esposizione di Torino del 1858 e di cui ne costruì ben 12 modelli, via via perfezionandoli;- 1868: il 13 agosto nasce ad Ivrea Camillo Olivetti, futuro professore alla Stanford University, che fonda in Italia dapprima l’industria degli Strumenti di Misura(1896) e poi quella delle Macchine per Scrivere (1909);- 1880: in dicembre il Senato italiano adotta la Michela, ossia la Macchina Fonostenografica inventata da Antonio Michela […]sono date e Uomini piemontesi che, non soltanto per i burocrati, sconvolsero irreversibilmente l’uso del calamo», del quale segue, o meglio s’inserisce presso che senza soluzione (se non per via di regole e usi tipografici) una dettagliata scheda, e così via (ivi, pp. 246-248).gibelli_calamaioNeppure stupirà, dunque, di trovare minerali e armi, tarocchi piemontesi, incisioni rupestri, la bicicletta – e la sua storia –, monete e strumenti d’ogni genere, e inoltre pietanze e ricette – come la Pasta e fagioli oppure la Bagna Càuda, e qui è la nostra personale memoria a correre fino alla nonna materna…A proposito delle ricette, ancora una riflessione: nell’introduzione ai due volumi, Gibelli precisa difatti che per il «“collaudo” [delle ricette e dei vari preparati] ho usato quasi sempre i vecchi sistemi di manipolazione degli ingredienti, eccezion fatta per l’uso del mortaio che ho sovente sostituito con il moderno macinino-frullatore elettrico». Non è questa la migliore ammissione che la storia dell’uomo e dei suoi “gesti” si snoda con continuità, lungo un filo irriducibilmente materiale?E che, insomma, la storia è una, come diceva Roland Barthes che recuperiamo facendo riferimento a quel che Sergio Polano ha scritto, Per una critica degli artefatti umani, in “dezine”, 2001, n. unico, maggio, pp. 1-2: «Preferirei, infatti, che degli artefatti e dei loro artefici, degli artifizi e degli arti, delle singolari imprese e delle plurali industriosità che li condizionano e li consentono, si tentasse e si provasse, con tutti i rischi che ciò comporta, l’ipotesi pregiudiziale di scrutarne la complicanza intrinseca e assieme la strutturale unità soggiacente, niente affatto riducibile in toto a (né risolvibile entro) compartimentati saperi specializzati e specialistici – profondi, selon moi, solo se maniacalmente specifici tanto quanto aperti al confronto sereno –, e si rinunciasse ad affidarsi esclusivamente a disgiunte ragioni estetiche o a banali poetiche individuali, a vieti economicismi meccanici o al comodo riparo dell’azione di un qualche misterioso genius loci e via discorrendo, separando in bricioline insipide il gusto e la forma unica di un solo, unico pane. È quanto, fuor di metafora, si può meglio esprimere (e anche, per chiarezza di scienza, porre all’egida di una palese dichiarazione di parte, sottoscritta in pieno da chi scrive) con una concisa citazione di Roland Barthes, ove egli ragiona a proposito di apparentemente lontani ma sostanzialmente prossimi problemi (le scritture), concludendo che: “c’è una filosofia della Storia: cioè che la Storia è una e unica”». Così scriveva Polano a ricordare che «gli “oggetti di disegno industriale”, nella loro significativa varietà (assai meno casuale di quanto possa apparire, tanto son affamiliati spesso) andrebbero soppesati, confrontati e messi a fuoco nel panorama del trascorrere di geografie storiche e di topografie cronologiche, ogni volta del tutto peculiari», senza ridursi alla bilancia estetica del bello/brutto, giacché – com’egli dichiara, per sé – «l’ambizione [è] di occuparmi d’arte, delle arte e degli arti: la maggior parte degli “oggetti di disegno industriale”, fors’anzi tutti gli artefatti umani, null’altro sono infatti che protesi, estrinsecazioni, estrusioni, oggettualizzazioni e oggettivazioni artefatte delle prestazioni del corpo; il bello e il brutto restino materia e affare di chi (avendone il tempo e le capacità) si diletta di estetica e la crede una disciplina storicamente consolidata (ma non ha più o meno due secoli and a half? oserei credere forse pochi, a fronte dell’umana industria, “disciplina” dell’homo sapiens e faber che spazia […] per almeno 40 migliaia d’anni). Comunque sia, credo che “potrà comprendere appieno l’arte – come ben spiegava Konrad Fiedler, già nel secolo passato (affinando altrui filosofiche idee di più antica data), in uno dei suoi Aphorismen, il 36 – solo chi non le imporrà una finalità estetica né simbolica, perché essa è assai più che un oggetto di eccitazione estetica e, più che illustrazione, è linguaggio al servizio della conoscenza”».

Museo
Dilemmi e tensioni

dilemmi_tensioniTorniamo ancora una volta sul tema del museo, per completare il resoconto della seconda giornata del convegno Il Museo storico. Il lessico, le funzioni, il territorio, promosso da Icom. Condotta da Daniele Jalla con Elena Romagnolo, la tavola rotonda del pomeriggio ha visto la proposta di alcuni binomi, elaborati a partire da uno studio condotto sui musei moderni e del Novecento; termini di confronto che non si danno – ha detto Jalla – come alternativi bensì come “dilemmi e tensioni” che i musei, e chi se ne occupa, devono affrontare. Non si tratta, per lo più, di termini nuovi, ma il loro abbinamento genera nodi da cui sorgono e in cui si intersecano numerosi quesiti ancora da risolvere. (Anche in questo caso ciò che riporto non sono sempre citazioni letterali, ma il senso di quanto sentito, come da me inteso; spero correttamente.)In situ / In museo: centro della riflessione sono gli oggetti che, sottratti al loro contesto, vengono introdotti nel museo dove, perdendo il loro valore d’uso, mantenendo un valore di scambio e assumendo un valore simbolico, devono tuttavia proprio documentare quella realtà e quel contesto da cui sono stati separati. Come il museo deve ricostruire il contesto originario? Quali sono, nella storia del museo, le soluzioni adottate per ricostruire il rapporto con tale contesto? Secondo quali gradi? E ancora, a quale tipo di intenzione comunicativa il museo deve rifarsi? Quale bagaglio culturale deve essere colmato: quello del curatore o quello della cultura che ha prodotto quegli oggetti? Come tenere insieme la delocalizzazione e il mantenimento in situ degli oggetti musealizzati?Collezione / Museo: se il museo non è da intendersi solo come raccolta di cose ma come soggetto, ovvero istituzione, allora si può dire che quel che precede il museo moderno è piuttosto “collezione” (privata o pubblica) che museo vero e proprio. Al tempo stesso la persistenza, ancora oggi, di molte collezioni impone di chiedersi come distinguere quelle che sono tali e quelle che possono essere (o sono) musei.Enciclopedico / Disciplinare: se “enciclopedico” storicamente si riferisce a un periodo e a una concezione precisi, quel che qui s’intende è il museo “che tutto contiene” in quanto distinto da quello invece disciplinare. Da universale ed enciclopedico, infatti, il museo moderno passa a essere sempre più disciplinare, dando così luogo a categorie e tipologie museali distinte non tanto in base alle collezioni quanto in relazione alla disciplina (accademica) di riferimento. Del resto il museo non solo esprime un paradigma disciplinare bensì può essere il luogo in cui si elabora e propone una definizione.Disciplinare / Tematico: è questo un binomio o passaggio su cui Jalla ha voluto particolarmente concentrarsi; al carattere disciplinare del museo moderno, infatti, si “oppone” oggi la tendenza verso il tematico, che significa interdisciplinarità, forse anche come tentativo di attuare una ricomposizione dei saperi. Certo è che il criterio tematico è quello che usualmente connota le mostre, le esposizioni temporanee; tuttavia è indubbio che anche i musei mostrino una forte propensione in questo senso. E probabilmente è pure una modalità per accogliere in sede istituzionale tutto ciò che si pone al “confine”, quel che non rientra in distinzioni disciplinari che non reggono più. D’altronde, dove, se non nel museo, proporre la ricomposizione dei saperi?È stato questo un punto abbastanza discusso, ma Jalla ha precisato come – più che di una proposta – si tratti di una presa d’atto di quel che già sta avvenendo («a un certo punto non c’è più il museo di scienze naturali ma il “museo dell’acqua”»), di realtà che vale la pena di esaminare per cercare di cogliere il mutamento in corso, magari anche interrogandosi se il termine “museo” sia ancora valido o sia usato per comodità, se si stiano producendo alternative inedite.Formazione / Educazione: oltre le finalità educative, è forse possibile o consigliabile recuperare il museo didattico di stampo ottocentesco, inteso non come educativo del “gusto” ma come tenuto in relazione con gli ambienti accademico-universitari, quindi come luogo in cui passa la formazione, per esempio, dei quadri industriali o degli artisti ecc. Pensare nuovamente a una pedagogia basata sulle cose, sugli oggetti, non relegandola a esperienza conclusa, che giace nella storia della museografia. Una pedagogia, inoltre, che non trascuri quel “diletto” di cui parla la definizione Icom, perché museo c’è solo laddove educazione e diletto si diano congiuntamente (con diletto che non significa loisir, non è la superficialità dei dispositivi comunicativi, bensì sgorga direttamente dalle finalità dell’istituzione).Nazionale / Locale: se i primi musei moderni sono nazionali, non solo in quanto collocati nelle capitali o maggiori città dei vari stati, ma perché espressione di una memoria e strumenti per la costruzione di una identità che si vogliono “nazionali”, a essi ben presto si sono aggiunti musei a carattere locale. Quella che si propone con questo binomio è la riflessione su come il locale si integri o possa integrare con il livello nazionale, come possa costituirne una articolazione, per esempio sul modello dei depôts francesi o dei musei civici italiani.Locale / Globale: dopo gli anni settanta del Novecento, “locale” è stato però soprattutto inteso non in relazione a “nazionale” bensì come termine contrapposto ai montanti movimenti e processi di globalizzazione. Tre quarti dei musei sorti negli ultimi cinquant’anni riflettono una esplosione di locale vs “tutto il resto del mondo”.Strumento / Ornamento: è una opposizione che si trova presto nei musei, che infatti nascono per lo più come strumenti di prestigio, dunque ornamento, oppure come strumento di educazione, o strumento tout court. Da un lato quindi è possibile insistere verso una istituzione rispetto alla quale poco importa chiedersi a cosa serva, purché “faccia fare bella figura”; dall’altro, per contro, si può insistere sulla qualità diversamente strumentale, dove l’utilità è formativa ma anche, in senso più ampio, culturale e sociale.Comunità / Territorio: premesso che se “territorio” viene limitato al dato geografico, se non viene incluso il patrimonio, il termine è presso che inservibile, la tensione qui in gioco è appunto quella fra museo che ponga l’accento sul patrimonio-territorio e il museo “comunitario”, la cui origine è strettamente connessa al pensiero, alla gestione e alla fattiva produzione da parte della comunità.Comunità / Collettività: qui il binomio sposta l’accento ora sulla comunità concreta, cui appartiene il museo e alla quale il museo fa riferimento, e la collettività intesa come destinatario in senso più largo, il pubblico a cui si rivolge lo sforzo comunicativo del museo, il suo contenuto.Permanente / Temporaneo: Krzysztof Pomian ha scritto che caratteristica del museo è la permanenza dell’istituzione; anche gli oggetti e gli allestimenti possono essere tali. La crescita delle collezioni pone tuttavia di fronte al problema di un diverso rapporto fra collezioni ed esposizione: è necessario operare scelte e trovare soluzioni nuove, in cui si apre la distinzione fra permanente (collezione) e temporaneo o soggetto al mutamento (allestimento). Oltre ciò, oggi soprattutto, “temporaneo” può anche diventare uno strumento aggiuntivo per il museo, inteso come mostre che possono essere curate e organizzate sia per esplorare il patrimonio sia come eventi indipendenti, esterni al posseduto museale.Reale / Virtuale: al museo delle cose si affianca il museo delle idee, in cui la presenza di realtà virtuali si aggiunge e talora sostituisce agli oggetti. Sempre meno museo, quindi, e sempre più spazio di comunicazione? Il bilanciamento fra i due poli è una questione cruciale – e infatti i presenti alla tavola rotonda si sono soffermati non poco su questo tema, cercando di precisarne il senso. Come abbiamo già detto, per esempio, Maria Gregorio ha ricordato che finché l’uomo avrà un corpo il museo dovrà essere il luogo che offre altri corpi.Accessibilità / Partecipazione: molto nei musei è stato fatto per assicurare e favorire l’accessibilità da parte del pubblico; il punto più alto, però, è stato detto, potrebbe essere raggiunto con la partecipazione attiva del visitatore, non solo in quanto può rientrare nella comunità da cui il museo nasce, ma in quanto si faccia interprete partecipe (con qualche riferimento alla “morte dell’autore”, che poi sarebbe il curatore, il museografo).Dopo aver registrato gli interventi dei relatori, che hanno sicuramente testimoniato come attorno a questi binomi – ma non solo questi – si possono e devono avviare ulteriori riflessioni ed elaborazioni, Daniele Jalla, traendo le conclusioni, ha osservato come l’intento non sia tanto porre parole o cesure definitive, quanto piuttosto assumere consapevolmente che il museo moderno, quello che ci è stato consegnato dopo la rivoluzione francese e che ha avuto tanta storia fino a oggi, si trova in bilico, pro-teso verso qualcosa di nuovo; e che, a quanto pare, anche le numerose e intense discussioni degli anni sessanta-settanta, forse, non hanno provocato rispetto al passato un vero e proprio cambiamento, semmai solo qualche oscillazione. Questi binomi sono dunque la lente attraverso cui guardare le problematiche del presente, percorsi da intraprendere senza attendersi direzioni univoche ma possibilità di analisi, che aiutino quanti si occupano di musei nel chiarimento verso se stessi e verso l’“esterno”, sia esso costituito da cittadini, politici, amministratori ecc.