Prendiamo un prodotto industriale; un “oggetto” tecnico che abbia un «surplus di progettualità» (Manolo De Giorgi, in 45-63. Un museo del disegno industriale in Italia, Abitare Segesta, Milano 1995, p. 14). Prendiamo un pezzo di design: la macchina per scrivere portatile Valentine, disegnata da Ettore Sottsass per Olivetti (1969; si veda anche l’Archivio Olivetti online, dove, dall’intervista a Sottsass vengono anche i nomi di Perry King e Albert Leclerc). E vediamo cosa succede a metterla in un museo. Prendiamo due casi, magari non eccellenti ma esemplificativi: il Kestner Museum di Hannover – museo di arti applicate – e il Musée des arts et métiers di Parigi. Quali le differenze in termini di esposizione e racconto?Non troppe, in fondo; quasi più una differenza di nome che di fatto: la didascalia del Musée non cita nemmeno Sottsass, quasi il designer non avesse un ruolo; ma anche a non voler fare la storia (della tecnica, degli oggetti) per autori, per un simile artefatto non pare si possa ignorare il progettista! Forse, o certamente, non è neppure lecito ignorare l’involucro della macchina portatile, in quanto elemento integrante, non puramente accessorio; quella custodia che infatti a Hannover troviamo esposta, anche se collocata in verticale, tale che assomiglia, da lontano, a un cestino per ufficio (per una immagine che restituisca l’integrità del progetto si può allora fare riferimento a quella presentata nella mostra virtuale Ideo Selects, di cui abbiamo già scritto). Per continuare nel confronto, che dire del contesto, delle “risonanze”? Mentre nel museo parigino – così come spesso avviene in musei della scienza e della tecnica (e per esempio si pensi alle macchine e dispositivi per scrittura meccanici nel Museo della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano) – la contestualizzazione è per lo più fornita dalla ripartizione in sezioni del museo – sappiamo di essere nella sala dedicata alla “comunicazione”, o alla scrittura ecc…. – e dalla successione (generalmente cronologica) di diversi modelli, portatori di diverse tecnologie, esemplari di un certo progresso, in un museo di arti applicate e design, come quello di Hannover, dov’è difficile – se non impossibile (?) – attingere all’idea di progresso, che cosa sorregge lo sguardo e la comprensione del visitatore? Da quanto si vede sovente, rimane solo la forma, l’oggetto quale modello di con-figurazione estetica, esemplare di uno stile individuale o collettivo. Ora, non è che si intenda negare la valenza formale ed estetica di tanti prodotti di industrial design, ma poiché il disegno industriale è «”fenomeno sociale totale” [espressione di Marcel Mauss] [… cioè] appartiene a quella categoria di fenomeni che non si possono esaminare isolatamente, ma sempre in relazione ad altri fenomeni con cui costituiscono un unico tessuto» (Tomás Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano 1991, p. 15), e poiché in questo fenomeno sono coinvolti – con differenti gradi di proporzione – fattori e considerazioni tecnici e non solo formali… allora ci chiediamo ancora una volta: è possibile mostrare qualcosa di più? O meglio, è possibile mostrare il pezzo di design – in specie “tecnico” – altrimenti che semplicemente disponendolo su un piedestallo, in una vetrina, apponendovi una didascalia? È possibile costruirvi attorno, o a partire da esso, un discorso maggiormente articolato – se pure non universale? Ed è possibile farlo per le collezioni permanenti oltre che in occasione di eventi temporanei?Nella Postfazione a Il museo della cultura politecnica. Luoghi del sapere, spazi dell’esporre, a cura di Fredi Drugman, Luca Basso Peressut, Mariella Brenna, Unicopli, Milano 2002, Luca Basso Peressut ricordava e citava l’impegno pluriennale di Fredi Drugman, che era orientato «alle “culture diverse”, meno ufficializzate, più aperte al dialogo con i territori e la gente, quali per esempio “la cultura industriale; le culture regionali; al cultura contadina; le culture delle minoranze etniche del nostro paese; la cultura tecnico scientifica” […]». Ora se è vero che questi temi sono divenuti a mano a mano «comuni, se non di moda», accade ancora di domandarsi se alcune di quelle culture non debbano essere ritenute ancora in certa misura “diverse”, sotto il velo delle mode. Se, cioè, la differenza non debba essere tanto quantitativa – se ne parla di più – ma qualitativa – come se ne parla, come se ne offre racconto e spiegazione.Uno spunto su cui riflettere ci viene sempre da Basso Peressut, dal suo Musei per la Scienza. Spazi e luoghi dell’esporre scientifico e tecnico / Science Museums. Spaces of scientific and technical exhibition, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1998 (a cui abbiamo già fatto altrove riferimento), laddove, trattando del periodo delle grandi esposizioni universali e delle arti industriali, nel cap. I L’architettura del museo tecnico-scientifico fra tradizione e innovazione, dopo avere citato Walter Benjamin – «Le esposizioni dell’industria come segreto schema di costruzione dei musei – l’arte: prodotti industriali proiettati nel passato», scrive: «Rimane l’urgenza della domanda, che viene posta in quegli anni agli architetti: che cosa deve distinguere un museo da una esposizione? Mentre il dibattito sui palazzi per l’esposizione merceologica affronta l’interrogativo se la costruzione debba essere “un’opera avente un ben marcato carattere provvisorio o un’opera definitiva” (presto superato con l’affermarsi della prima soluzione), non risulta invece esservi incertezza sul fatto che il museo industriale non può riproporsi come pura e semplice trasposizione della sperimentalità effimera di forme e contenuti del palais d’exposition industrielle.Si vuole, in questi casi, affermare una istituzionalità e una dignità architettonica che sia, evidentemente, diversa ma confrontabile a pari livello con quella dei più consolidati musei d’arte. Con ciò si arriva a definire statuti e immagine di quei monuments to manufacture che rappresentano un genere nuovo di museo, pur non ancora chiaramente individuato nelle differenti specificità degli oggetti scientifici, tecnici e delle industrie che vi sono raccolti ed esposti (per tutto l’Ottocento infatti conviveranno negli stessi musei sia i prodotti delle “arti industriali” sia le raccolte scientifiche e tecniche: in entrambi i tipi d raccolte, di arte industriale e tecnica, troviamo infatti “machines and models of the useful arts”)».Senza dimenticare, anzi, che Basso Peressut si sta riferendo alle architetture dei musei e delle esposizioni, ci pare che questo brano sia stimolante sotto vari profili. Sia perché tratta della distinzione fra esposizione merceologica ed esposizione museale, la prima improntata alla temporaneità e alla sperimentazione, la seconda alla permanenza istituzionalizzata e fissata anche in termini spaziali e architettonici (ma non si pensi solo all’involucro, si immaginino i percorsi interni, gli ambienti, i muri, gli allestimenti…) – un tema non alieno all’attualità e al design in particolare, laddove spesso accade di chiedersi in che cosa un museo si distingua dallo stand di un salone d’arredo. Sia perché, una volta distinto fra merce e oggetto d’arte – si intenda “della tecnica” –, per quest’ultimo non si diede inizialmente separazione fra industriale e tecnico-scientifico: arti industriali e raccolte tecniche e scientifiche convivevano. E perché non dovrebbe essere così? Non sono forse due facce della stessa medaglia? Non è per questo che Valentine può stare in un museo d’arte applicata (invero può stare anche in un museo d’arte contemporanea: e si veda infatti il MoMA) come pure in un museo di arti e mestieri o in un museo della scienza e della tecnica?Ma a maggior ragione la differenza non potrà essere solo nominale – l’indicazione o meno del nome del designer –, non potrà essere data solo dall’involucro – cioè dal fatto di essere entrati in un edificio che è chiamato “museo del design” anziché “museo della scienza e della tecnica” ecc. – o affidata agli sforzi del visitatore.Ovvero, ancora, non sarà interessante tentare una articolata ricomposizione di saperi e fenomeni?
Design nei musei:
Period e design(er) room,
fra Parigi e Amsterdam
“Musée des arts décoratifs, là où le beau rejoint l’utile”, così si presenta il museo di Parigi, le cui sale sono state riaperte al pubblico nel 2006 dopo dieci anni di chiusura, di cui cinque di lavori, e dopo la firma di una nuova convenzione con lo stato francese (Les arts décoratifs nacquero infatti come associazione privata nel 1882, approvata dallo stato e riconosciuta avente pubblica utilità; aperte al pubblico nel 1905 al Louvre, padiglione Marsan, solo nel 1920 le collezioni sono definite proprietà dello stato che, oggi come allora, provvede alla retribuzione dello staff mentre acquisizioni e allestimenti sono in carico alla Union centrale des arts décoratifs). L’assunto che nelle sale rinnovate il bello si congiunga con l’utile si riferisce non però all’esposizione in sé (come atto dell’esporre), bensì si colloca a monte, in un limbo teorico, e si riferisce al fatto che le collezioni – circa 150 000 pezzi dal Medioevo al XXI secolo, e dei quali sono portati al pubblico 5-6000, in circa 9000 mq – superano la vecchia distinzione fra arti maggiori e minori, (ri)stabilendo il posto delle arti decorative all’interno della storia dell’arte (si veda anche quanto riportato in questo articolo online che si riferisce all’inaugurazione). Dal sito web del museo ricaviamo che tutti gli oggetti esposti «présentent tous les aspects de la production artistique, dans tous les domaines des arts décoratifs, et illustrent les techniques les plus diverses : art du bois (sculpture, mobilier, boiseries), du métal (orfévrerie, fer, bronze, étain), de la céramique, du verre, du cuir (écrins, reliures), de la peinture mais aussi celles, plus modestes, des marqueteries de pailles, de broderies de perles, de tôles peintes…».Ora è ben vero che i pezzi sono i testimoni di tante tecniche, tuttavia dall’allestimento e dal racconto proposto alla vista non si può dire di più. In altre parole: ci sono solo i testimoni. Le tecniche, i materiali, le procedure, le pratiche sono proprio i grandi assenti. A meno di volersi concedere alle lunghe didascalie, pezzo per pezzo, o affidare a un’audioguida, che completi per via auricolare il racconto, questo si snoda visivamente per oggetti e stili, oppure per grandi nomi – come avviene dal nono al sesto piano, dedicati al design degli ultimi sessant’anni.Apprezzando comunque grandemente che tanto sia reso visibile, nel percorrere le sale è difficile non sentire un senso di insoddisfazione che cresce allorché ci si avvicina al contemporaneo. Sarà per stanchezza – il percorso è veramente ricco – o forse perché a certe scelte allestitive e narrative siamo abituati laddove siano riservate al passato lontano, a mano a mano che si procede si sente che il meccanismo espositivo funziona sempre meno, lasciando l’impressione di una carrellata estenuante. E mentre ci si chiede come avrebbero potuto fare diversamente in un museo dedicato alle arti decorative, e a fronte di tanto consistenti collezioni; mentre si riesce, diciamo così, a comprendere l’esibizione di gusti e stili – che sono della Francia, si ricordi, pur, naturalmente, attraverso produzioni non solo francesi, come i vetri veneziani e i cristalli boemi – per le epoche che siamo ormai abituati a conoscere e immaginare sui libri di scuola o dai film in costume (ma forse dovremmo comunque chiedere altro?); ebbene, mentre possiamo accettare o ammirare la ricostruzione di un salone del 1795, quasi fossimo in una casa-museo, il nostro livello di tolleranza scende percettibilmente nelle sale dedicate ai secoli XIX, XX e all’attuale.In misura crescente rimbomba con fastidio nelle orecchie il motto “le beau rejoint l’utile”, perché se pure gli oggetti esposti sono stati di fatto oggetti d’uso, utili e non solo opere da ammirare, proprio il senso della loro utilità, del loro uso, dell’universo produttivo e di “consumo” che li circondava, manca, non emerge. L’utile annega sotto tanta bellezza. Nulla di nuovo, dunque.Non sbagliava quindi il titolo del numero monografico di “Dossier de l’Art” (n. 133, settembre 2006): Le musée des Arts décoratifs. Une étonnante grammaire des styles du Moyen Âge à nos jours. Una grammatica di stili. Del resto, in questa stessa pubblicazione Hélène David-Weill, presidente del Musée, se da un lato dichiara che «le parcours proposé est à la fois une promenade historique, sociologique et chronologique» – ma, vorremmo dire, buona parte della ricomposizione è affidata al visitatore… –, se dichiara che «nous ne voudrions pas qu’on vienne dans ce musée juste pour voir des oeuvres d’art, parce que nous sommes un musée de la vie, de l’environnement», dall’altro, poco prima, si chiede: «Les arts décoratifs n’éveillent pas le même sentiment de beauté que les beaux-arts. Est-ce parce que ce sont des arts utiles, différents de la peinture ou de la sculpture? Or un fauteuil orné de sculpture de bois ou d’ivoire est aussi beau et demande autant de savoir-faire, de réflexion et d’imagination qu’une oeuvre d’art» (Entretien avec Hélène David-Weill, présidente du musée des Arts décoratifs, propos recuillis par Jeanne Faton et Armelle Fayol, ivi p. 4). Certo, entrando in un museo d’arte decorativa non si guarda i pezzi esposti come si guarderebbe la Gioconda, però la relazione fra bello e utile non ci pare pienamente risolta nel Musée – anzi è così flebile che non si giunge nemmeno a sentirla come “tensione” –, e David-Weill prosegue subito dopo: «L’enjeu est de montrer que les arts décoratifs sont à la fois un environnement, une mode de vie et de pensée, une manière d’être heureux, une manière de vivre confortablement, et qu’il sont beaux». Ma allora…?Per tornare all’allestimento, la scelta fatta è stata quindi di un percorso cronologico – per secoli, tranne per gli ultimi sessant’anni divisi per decadi – entro il quale si incontrano, oltre alle vetrine, 11 period room, alcune galeries d’études (selezioni per l’approfondimento, secondo le intenzioni da rinnovare periodicamente) e sezioni specifiche, come quelle riservate ai giocattoli e ai gioielli, o quella della donazione Dubuffet.Quella della period room è una tipologia allestitiva che affonda le sue origini fra fine Settecento e Ottocento, ricercando una «restituzione mimetica» attraverso una messa in scena capace di illustrare le differenze d’epoca (si veda Dominique Poulot, Musée et muséologie, La Découverte, Paris 2005, pp. 23, 53). Tipologia che ha poi trovato ampio seguito sia in Europa (e sulle problematiche che la realizzazione e ricostruzione di period room pongono, in relazione anche alle acquisizioni e alla conservazione museali, si veda anche Sarah Medlam, The Period Rooms, in Creating the British Galleries at the V&A. A Study in Museology, a cura di Christopher Wilk, Nick Humphrey, V&A Publications – Laboratorio Museotecnico Goppion, London 2004, cap. 10, pp. 165-205, per esempio p. 165: «Of all the objects in the [British] galleries, the period rooms were the most complex to install, conserve and present, and certainly the most expensive») sia oltreoceano, a partire dal Museum of Art di Cleveland, la cui apertura nel 1916 sarebbe generalmente ritenuta segnare l’inizio dell’età classica dei musei americani. Scrive Poulot, Musée et muséologie, cit., p. 53, che l’«exercice de la period room, présent en à Cleveland mais qui se développe au Metropolitan de New York en 1924, est une […] figure de la quête d’ensembles, capables de transporter le visteur, à la manière des lecteurs de roans selon Bakhtine, dans un chronotope, une structure de temps prise dans l’espace. Le conservateur et historien de l’art Fiske Kimball, à Philadelphie, repousse les limites du processus à partir de 1928 avec les achats et les transferts d’ensembles architecturaux et décoratifs, aussi bien que la réalisations de period-rooms, afin de réaliser un parcours en forme de main street of art».Dunque le period room rispondono alla richiesta di un “insieme” che superi la frammentazione per oggetti singoli, che consenta un’immersione ambientale, simulando l’esperienza di un’epoca o di un luogo – una richiesta che supponiamo originata già dalla qualità della nostra percezione, che, salvo specifici tentativi, non restituisce elementi isolati ma ci presenta insiemi significativi, complessi “organizzati”. Nel Musée des arts décoratifs di Parigi, fra gli allestimenti di questo genere, sono una novità del 2006 la sala da pranzo di Eugène Grasset (1880) e lo studio-biblioteca di Pierre Chareau (1925).E per il design? Ebbene fra il nono e il sesto piano del museo l’esposizione dedicata al design – quasi esclusivamente furniture – si dispiega attraverso oggetti isolati oppure piccoli insiemi raggruppati per autore, quasi a costituire una sorta di “designer rooms” inserite all’interno di quella grande period room che è appunto la sezione del museo che copre l’arco 1940-2000 e che può sembrare una grande sala simil-showroom o simil-fiera.La “collina delle sedute” ne è l’emblema, con ogni sedia o poltroncina affiancata solo da un numero (per capire chi sia il designer, chi il produttore, quale l’anno, se si è privi di audioguida, si deve fare riferimento alla lunga lista di didascalie a stampa – naturalmente da non portare via con sé ma da riporre nell’apposito espositore); tanto che si ha a tratti l’impressione disagiata di trovarsi di fronte a un baraccone delle giostre, uno di quelli dove se si fa centro in un certo numero si può ritirare il premio corrispondente! Hai colpito il 59? Allora il pezzo di Roger Tallon è tuo! Il 65? Che fortunato, è la Tube Chair di Joe Colombo! Non aggiunge molto nemmeno la sala in cui alcune delle sedute, quasi fossero scese a valle, sono sparse perché il visitatore possa sedersi, mentre su uno schermo scorrono varie immagini. Forse che in showroom, fiere e saloni, o in casa o nello studio di qualche amico non accada già di poter fare questa sublime esperienza? E d’accordo che il pubblico del museo è variegato e non specialista, però…E le designer rooms? Oltre ai semplici raggruppamenti per Charlotte Perriand, Jean Royère o Jean Prouvé, è per alcuni progettisti più vicini ai giorni nostri che troviamo realizzate delle specie di scatole – anche su ruote –, piccoli ambienti claustrofobici, per quanto aperti almeno su un lato, che hanno il sapore di una punizione, di un incubo o comunque di una finzione bella e buona (e non si può entrare, non si può toccare). Reclusi in una stanza a parte, su pedane o esposti in scatole dentro la scatola che è la sala, sono poi Starck, Newson, Arad, Morrison (avevamo criticato quel che si può vedere del Museo del design industriale di Calenzano, ma a vedere questi allestimenti a Parigi si direbbe che a Firenze siano aggiornati). E in una stanza di fronte troviamo il design italiano rappresentato da Gaetano Pesce, Sottsass – che fa quasi tristezza messo nell’angolo – e un’esplosione di Mendini, con i colori della poltrona Proust che paiono riverberarsi nei vasi su tre file tutt’attorno e negli specchi retrostanti…È questo il racconto del design che si può svolgere se si rimane nell’alveo delle arti decorative? Per trovare una strada differente si dovrà esplorare e cercare un altro tetto (museo della cultura materiale, museo della scienza e della tecnica, museo delle arti e dei mestieri…), oppure crearne uno ad hoc (museo del design)?Prima di passare in Olanda, segnaliamo ancora in relazione al Musée des arts décoratifs, gli Ateliers du Carrousel che, nati nel 1953, rappresentano il punto di incontro fra collezioni e formazione, organizzando corsi diversi, dalla pittura al disegno, alla modellazione della creta alla grafica, all’illustrazione. E non dimentichiamo infine l’École Camondo, che è invece una vera e propria scuola di formazione superiore, di durata quinquennale, per i settori architettura d’interni e design.Vedi la gallery:Musée des arts décoratifsE ora ad Amsterdam, allo Stedelijk che, in attesa della riapertura della sede originaria prevista per la fine del 2008 (quando sarà nuovamente visibile la collezione permanente), è ancora ospitato nell’edificio Post-CS, a pochi passi dalla stazione centrale dei treni. Tralasciando in questa sede la storia del museo e delle sue collezioni di design (una buona ricostruzione specifica si trova in Designmuseen del Welt eingelanden durch Die Neue Sammlung München / Design Museums of the World invited by Die Neue Sammlung Munich, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin 2004, pp. 23 ss.), quel che ci interessa segnalare è che all’interno della mostra Scènes en sporen. Vormgeving, video, fotografie en installaties / Scenes and Traces. From the Collection Design, Photography & Video (complessivamente fino al 25 novembre) il modulo dedicato al design (solo fino a metà agosto) ha scelto una soluzione allestitiva che è una variazione sul tema delle period room. Period room d’oggi (o degli ultimi 25 anni), con il vincolo del design: camera dei bambini, cucina, ufficio, salotto, sala da pranzo (se mai c’è da chiedersi se esista ancora nell’uso e nell’organizzazione domestica una tale distinzione di ambienti; ma tant’è…). Su pedane e racchiusi da un velo/zanzariera che stabilisce un filtro fisico per il visitatore, sono disposti pezzi di Grcic, Rashid, Bellini, Morrison, Jonathan Ive e il Design Team di Apple (iMac) e altri. Anche qui, insomma, niente di nuovo. E i visitatori attraversano piuttosto in fretta le stanze dedicate (di questa esposizione si può avere un’idea anche guardando il breve video online), magari per approdare subito dopo alla più interessante – almeno per noi – mostra della migliore grafica editoriale olandese del 2006, De Best Verzorgde Boeken 2006 / The Best Designed Books; interessante sia per i volumi in sé sia per lo spartano – apparentemente – allestimento, piacevolmente fruibile.Vedi le gallery:Scenes en sporen _ DesignDe Beste Verzorgde Boeken
NanoExpo, Cité des sciences et de l’industrie
Hands-on, parole… e il parere dei visitatori (italiani)
È durata fino a ieri (2 settembre) presso la Cité des sciences et de l’industrie a Parigi, La Villette, ExpoNano. La technologie prend une nouvelle dimension. Si tratta di una esposizione che, inaugurata a Grenoble Le Casemate nel 2006, sarà itinerante fino al 2011 (evidentemente con modifiche nel tempo; i moduli attuali, per come li abbiamo veduti, presentano già alcune differenze rispetto alla prima “versione” come illustrata nel sito Exposition Nanotechnologies): «la première exposition itinérante française d’information sur les nanotechnologies. Elle a été co-produite par le CCSTI Grenoble La Casemate, la Cité des Sciences et de l’Industrie à Paris et Cap Sciences à Bordeaux. Ses objectifs sont d’informer et de mieux faire comprendre les nanotechnologies, leurs enjeux scientifiques, économiques et sociétaux et d’ouvrir le débat, de donner la parole à toutes les parties prenantes». Così, se la Gran Bretagna ha avuto nel 2005 la sua Nanotechnology: small science, big deal, al Science Museum di Londra, e si deve a un progetto tedesco lo strumento interattivo Nanoreisen, – che peraltro è reso accessibile anche dal sito di ExpoNano, segnale che non serve ricominciare campanilisticamente daccapo se qualcosa di buono è stato già fatto –, per non dire delle iniziative fuori dall’Europa, ora è il turno della Francia. Laddove spesso un evento simile è lo specchio di un dibattito in corso a livello nazionale e almeno di un interesse, misto a preoccupazione, che comincia a toccare i cittadini. Anche per questo si capisce come ExpoNano sia in lingua francese e abbia un impianto sostanzialmente didattico – d’altronde su questi nuovi mondi tutti, non solo i bambini in età scolare, abbiamo ancora da imparare.La brochure illustrativa non lascia dubbi: «ExpoNano vous donne des clés pour vous faire votre propre opinion et vous invite avant tout à un voyage vers le nanomonde». Poco spazio, pertanto, per esibizioni di bravura multimediale, nessuno per suggestioni artistiche o immaginifiche; lo sforzo è rivolto a rendere accessibile la comprensione dei fondamenti delle nanotecnologie, «un ensemble de techniques qui permettent aujourd’hui de “visualiser” et de manipuler les atomes, donc de fabriquer de nouvelles structures atomiques» (interessante, per noi, che al primo posto sia messo il “visualizzare”, perché le nanotecnologie sono proprio lo strumento che rende visibile ciò che non lo è per l’occhio umano, e la questione di come renderle a loro volta visibili per chi non possa accedere a un laboratorio – cioè più o meno tutti tranne chi ci lavora – è cruciale per chi voglia trattarne).Per capire come sia strutturata la mostra si può fare riferimento al sito web, che ne illustra il percorso, strutturato in moduli:I. Entrez dans le nanomonde …II. Manipuler les atomesIII. Ils sont déjà parmi nous!IV. L’avenir a-t-il besoin de nous?a cui corrispondono altrettanti “padiglioni” (realizzati con pedana e struttura in legno, supporto per pannelli esplicativi oppure sfondo per altri elementi, quali postazioni multimediali e installazioni hands-on): Fondaments, Techniques, Usages, Ethique. È inoltre presente una specie di torre, che serve da richiamo (gli spazi della Cité sono molto ampi e numerose le iniziative…) e quale espositore per alcuni pannelli e materiali – circuiti integrati, celle fotovoltaiche, ecc. –, oltre che per un monitor che trasmette un breve filmato in cui si raccontano la nascita e gli obiettivi di Minatec, promosso da Cea (Commissariat à l’énergie atomique), inaugurato a Grenoble nel 2006 e inteso come il futuro maggiore attore della ricerca europea in materia di micro- e nanotecnologie. Poco distante, una grande vasca con una delle “attrazioni” tipiche in materia di nanotecnologie: le piante di loto, che esemplificano gli effetti delle strutture nanometriche già presenti in natura, in questo caso la capacità autopulente. Immagini delle installazioni sono anch’esse disponibili online.Quel che ci interessa segnalare è, come abbiamo anticipato, la scarsa presenza di multimedialità esagerata. Si punta invece sulla manipolazione, sull’hands on, come pratica ancora migliore per comprendere quel che avviene a livello atomico (laddove, fra l’altro, non vale più la fisica classica, e si sperimentano comportamenti che solo “toccati con mano” possono essere intesi: si pensi per esempio al fortissimo legame fra gli atomi…); e ancora sulla esposizione, “sotto vetro”, di materiali realizzati o trattati con nanotecnologie (dalla racchetta da tennis in carbonio alle ceramiche, dai pantaloni alle calze antiodore, al packaging antibatterico…).Si punta altresì sulla disponibilità del visitatore a farsi partecipe, a entrare nel tema leggendo, cercando risposta ai grandi quesiti che si pongono; e quello della disponibilità del pubblico ci pare un tema da non trascurare, a meno di intendere musei e centri come meri parchi giochi. Infine sono presenti postazioni multimedia che, oltre a qualche software di simulazione delle operazioni su scala nanometrica (bottom up), accolgono soprattutto filmati in cui la parola è lasciata agli esperti.Poiché l’importante sono le domande, i quesiti: quelli che si pongono gli esperti, certo, ma specialmente quelli che ci poniamo ancora tutti noi di fronte a tematiche e, possibili, problematiche tutte da scoprire, come opportunità, impatto sul territorio, risvolti economici e sociali, questioni etiche, pericoli. D’altronde abbiamo sentito che al Science Museum di Londra pare abbiano già potuto – com’è loro abitudine – tirare le somme su usi e abusi (o inefficacia) di installazioni multimediali laddove la finalità principale rimane che i visitatori – per lo più giovani – escano dalla mostra (si vedano anche alcuni materiali scaricabili dal sito di Dave Patten, Head of New Media at the Science Museum).Insomma, potremmo dire di non avere veduto nulla di avveniristico… a parte il contenuto stesso della mostra, cioè le nanotecnologie naturalmente! Ed è questo che conta, specialmente quando si tratta ancora di affrontare l’analfabetismo in materia, di stimolare nelle persone una presa di posizione, o meglio almeno una riflessione minimamente consapevole su quello che è il nostro futuro, il nostro presente.E particolarmente in questa direzione va il quarto padiglione – il meno frequentato, almeno durante la nostra visita! – dedicato alle questioni etiche e alla riflessione dei visitatori: che, a quanto si evince dai guest book esposti, ha tuttavia ancora qualche difficoltà… Invero più che essere libri per gli “ospiti”, quali sono stati prevalentemente intesi, i quaderni presenti invitavano le persone a lasciare traccia del loro pensiero su tre temi: 1. riassumere in una frase le nanotecnologie; 2. quali i motivi per proseguire nello sviluppo delle nanotecnologie; 3. quale il principale pericolo delle nanotecnologie.A leggere quello che nei quaderni hanno scritto i visitatori – soprattutto quelli italiani, che preferiscono rievocare i fasti (?) calcistici degli ultimi mondiali e ricordare ai francesi che dovrebbero imparare l’italiano, anziché sforzarsi di elaborare un pensiero o, almeno, evitare di scrivere – ci sembra che il pericolo maggiore sia l’ignoranza o il disinteresse.Si veda la photogalleryEppure non è stata iniziativa del tutto inutile; fra gli altri commenti lasciati, interessante trovare (si veda immagine 19 della gallery) una contro-informazione di rilievo, fatta con riferimento al centro Minatec di Grenoble. Qualcuno ha infatti scritto: «A Minatec (Grenoble) l’opposition au projet était vehémente et la répression violente et non le contraire comme cela est affirmé dans le film “impact sur le territoires” [si tratta del filmato che all’interno dell’esposizione è dedicato appunto al centro di Grenoble, di cui viene sottolineata l’importanza per l’Europa e l’“integrazione” con il territorio]».
Cooper Hewitt feat. Ideo
Ideo feat. Cooper Hewitt
Nel campo musicale featuring indica la partecipazione – in varia misura – di un artista a un brano eseguito principalmente da altri. In alcuni casi si tratta di una sorta di “tributo” in altri di vera e propria collaborazione. In qualche modo, di una interpretazione.Che una esposizione possa nascere da un’interpretazione a più voci non è inusuale, basta pensare alle mostre con più curatori. Al centro del loro lavoro – non la musica e le note ma – artefatti e opere, collezioni, patrimoni. Quando non si tratti di esposizioni confezionate ad hoc, però, ovvero quando si tratti di collezioni permanenti, è ancora più interessante osservare la pratica, da parte di musei e istituzioni di chiamare visiting (guest) curators a cui affidare lo studio, la lettura e il racconto. Come per i visiting professors, si tratta di un’occasione più o meno prolungata che onora chi ne è investito, e parimenti ne riconosce il valore o l’autorità. Interessante pratica perché si riallaccia ai fondamenti delle istituzioni museali, intese come luogo non solo di conservazione ma anche di produzione e diffusione culturale; e inoltre perché – certo con le dovute distinzioni – attinge al principio della pluralità di voci e della condivisione delle fonti e dei saperi.Nella nostra immaginazione simili iniziative, che nella realtà probabilmente sono anche connotate da aspetti burocratici e “politici”, ci appaiono come un invito, un’ospitalità di estreme generosità e apertura, quello cioè rivolto ad altri perché venga in casa nostra per dare una interpretazione di ciò che vi trova o magari perfino di noi stessi.Varianti di queste formule sono quelle in cui – come nella musica di cui si diceva supra – si fa appello e si “sfrutta” in qualche modo il nome dell’interprete, che sia del settore. Il museo d’arte può chiamare l’artista, così come un museo del design può chiamare un designer.Così ha fatto il Cooper Hewitt National Design Museum (Smithsonian Institution) a New York, che ha chiamato alcuni guest curators per alcune mostre temporanee. Il più recente è lo studio Ideo che ha esplorato la collezione permanente del museo realizzando una mostra incentrata sul tema design thinking – fino al 20 gennaio 2008 presso la Nancy and Edwin Marks Gallery, ma anche con possibilità di visita virtuale online. Come riportato nella home del sito dedicato, «to represent design thinking, Ideo chose objects that demonstrate innovative problem solving over the past five centuries. Ideo uses three lenses – Inspiration, Empathy, and Intuition – to explore these objects and the very human impulses that motivate designers and the contexts in which objects are created and used». È Tim Brown, presidente di Ideo, a spiegare le finalità di questa operazione, tracciando un rapido arco della propria vita da designer, delle esperienze che lo hanno condotto a comprendere ben presto – dopo la laurea a Londra negli anni ottanta – che «design is about far more than form giving. It is about understanding the needs of individuals and groups and working to create responses that really meet those needs both functionally and emotionally. It is about investing as much in the idea as in the form. It is about exploiting the essential optimism of design thinking to explore possibilities that do not occur to those who only take an analytical view. It is about responding to the challenges of the present by imagining the possibilities of the future».La mostra si ancora dunque con intento propositivo nell’attualità e nel contemporaneo: l’obiettivo è non solo mostrare come il design thinking – certo non sempre consapevole come in questa espressione – sia stato applicato o sia comunque entrato in gioco nella ideazione e realizzazione di molti prodotti, ma anche «illustrate how you might apply some of these aspects of design thinking to your own creative challenges».Come emerge chiaramente dall’allestimento – visibile dalla virtual exhibit – non pare che siano state intraprese particolari soluzioni per esplicitare il processo del design thinking. Il che è comprensibile, considerato che in questi casi il guest curator è chiamato, in qualche modo, a estrarre dei pezzi dalle collezioni (Ideo Selects è il titolo dell’esposizione), e comporli secondo la propria interpretazione. I prodotti, entro vetrine o su pedane, sono invece accompagnati da didascalie (le stesse del sito, crediamo) che traducono in testo da leggere non solo i dati “biografici” (designer, anno, produttore, nazione, materiali) ma soprattutto la posizione rispetto alle tre coordinate – i curatori parlano di lens – assunte dai curatori per illustrare il design thinking, ovveroInspiration: «how designers respond to the materials, technology, people, and social and cultural contexts of their time»;Empathy: «how designers imagine people will benefit from their ideas based on the needs at hand»;Intuition: «how designers’ intent and personal frameworks drive their vision of the outcome».Non tutti i pezzi presenti, del resto, sono rappresentativi di tutte tre queste modalità. Per esempio, a differenza di Valentine di Sottsass, il calcolatore Divisumma 18 disegnato da Bellini presenta il riferimento solo a Empathy, essendo concepito primariamente quale prodotto per un ufficio tecnologico “completamente umanizzato”. Viceversa, una poltroncina per lettura, inglese e settecentesca, viene descritta solo in termini di Inspiration, come pure avviene per la Radio portatile TS 502 di Sapper e Zanuso, magari con un po’ di semplificazione: «As colorful plastics were hitting their stride in the 1960s, designers Richard Sapper ad Marco Zanuso were expanding their use in consumer goods such as the ts502 radio. Not unlike its modernist furniture counterparts, the radio had a soft-edged, glossy aesthetic which spoke of the future, James Bond films, and casual irreverence».Comunque, con i dubbi che pure si possono avere, la visita virtuale vale la pena. Fra l’altro è possibile non solo commentare le schede dei pezzi – operazione interessante, come se ogni opera esposta avesse un guest book, in cui lasciare le proprie annotazioni (la scheda di catalogo si è ormai trasformata in post di un blog!) – ma anche, nella sezione In the World, aggiungere immagini di prodotti, oggetti da candidare per l’inserimento nello slideshow. Naturalmente precisando di quale lente si voglia dare esemplificazione: Ispirazione, Empatia o Intuizione?
Raccogliere, ordinare, raccontare
Questa immagine pubblicata ieri in “La Repubblica” (Fabrizio Ravelli, Craiova, nella terra degli zingari. “I lavavetri? Chi ruba ci rovina”, p. 13) mostra l’interno di una abitazione di zingari in Romania. Il tema dell’articolo in cui compariva è serio, ma noi ci soffermiamo qui solo sulla foto: scodelle ordinate su più file in un equilibrio che a noi sembra precario, alle pareti cestini e scolapasta di plastica di differenti cromie, e ancora vasetti appesi grazie al manico, ciotole e pentole di metallo, verso il fondo tazzine che si confondono con le decorazioni della parete (o della tenda)…Tanti oggetti d’uso disposti con ordine. Che cosa raccontano? Abitudini e costumi, status sociale, decoro ed etica, aspirazioni di una famiglia, di un gruppo. E il loro racconto, immediato e vivo, si dispiega proprio nell’uso che di essi viene fatto, nel loro disporsi all’intervento ordinatore di chi li possiede – che con essi non solo compie azioni quotidiane ma comunica se stesso.L’immagine ci fa venire in mente molte infilate di pezzi più o meno preziosi ormai sottratti all’uso e collocati in vari musei di arti decorative, di quelli che spesso non è possibile neppure fotografare – divieto che ci pare sempre meno comprensibile, in particolare in musei di arti applicate e decorative (recentemente abbiamo visitato quello di Padova dove, appunto, non è consentito scattare alcuna fotografia).Questa immagine l’abbiamo invece scattata al Musée des arts décoratifs di Parigi – dove per fortuna non c’è alcun divieto in merito, e si può inoltre agevolmente ritrovare gli oggetti esposti anche nel catalogo online del sito web.Una suggestiva serie di boccette, presse-papier, flaconi… sottoposti agli usi e consumi museali, ovvero a essere guardati nel complesso come una tavolozza di colori e di forme, oppure riguardati con ammirazione da visitatori per lo più accompagnati da audioguida individuale. Che cosa raccontano? È un racconto per nulla im-mediato, e ben poco “vivo”. Sia perché si tratta di artefatti lontani (nel tempo e nello spazio; e su simili distanze, sempre restando a Parigi, si pensi per esempio al Musée du Quai Branly), di cui a volte possiamo faticare a riconoscere e comprendere l’utilizzo e la fattura, sia perché nei musei il faticoso lavoro curatoriale che si colloca fra i termini della meraviglia e della risonanza, della sacralizzazione e della contestualizzazione, e oltre, si trova sovente a dover operare scelte, talora compromessi, al fine di giungere a offrire una forma di esposizione, racconto e comunicazione. Per cui, se spesso ci accade pure di pensare «Questa esposizione poteva o doveva essere fatta altrimenti», o di maturare fra noi qualche critica, alla fine dei conti riconosciamo sopra ogni dubbio, e con gioia, la fortuna che i musei ci siano, e che qualcuno ci provi a mostrare e raccontare – anziché tentennare lasciando le opere nei magazzini. Non per questo vogliamo ignorare il rilievo e la responsabilità che il ruolo del curatore possiede, anzi. Ma la fortuna è anche quella che ci sia ancora spazio per raccontare in maniera diversa, per costruire “altri” racconti, sia da parte dei curatori e degli studiosi, sia da parte dei visitatori stessi per i quali un’esposizione non condivisa o ritenuta carente potrà almeno fungere da stimolo: perché avrà veduto, e – esprimendoci al limite – non potrà ignorare l’esistenza di un oggetto prima sconosciuto al suo universo.Per tornare all’immagine, il racconto che la visione – e la ricezione con più sensi – di una tale esposizione di oggetti svolge si compone dunque di diversi livelli: quello che viene proposto al visitatore, in forme più o meno articolate (con didascalie, pannelli, audioguide ecc.), ma pure quello – che con un po’ di allenamento si può ricavare – relativo alle intenzioni dei curatori. Il racconto del racconto. Naturalmente i due racconti sono in qualche modo sovrapposti e coincidenti, ma si deve guardarli con occhi differenti e con differente disponibilità all’abbandono. Senza voler dire, si badi bene, che il museo è un testo o i curatori propriamente scrittori, l’opera che viene allestita nei musei ha e deve avere una consapevole valenza autoriale. Il visitatore non dovrebbe ignorarlo, e dovrebbe invece moltiplicare il proprio sguardo sulle esposizioni che visita.La mediazione che un curatore, un museo, opera sugli oggetti dovrebbe rendere conto di se stessa, spiegarsi, rendersi comprensibile. Raccogliere e ordinare oggetti in un museo è altra cosa dal mettere in ordine piatti e pentole in casa propria.