Design fra mito e storia

miti_oggiTemendo, per ignoranza, di sfidare il vero – insomma di errare – allorché ci accade di ritenere che per una migliore conoscenza e diffusione della cultura progettuale ci sia ancora lavoro da fare; che talune carenze, assenze o ripetizioni – dalla storiografia alla critica, fino ai musei o alle mostre temporanee – siano segnale di come il “design” (non) è inteso; che certe relazioni del design con altre discipline, laddove trattate con univocità e tentazioni d’assolutezza, contribuiscano a rendere profittevolmente – per alcuno – confusa e banalizzata l’idea (con la minuscola, s’intende) e la conoscenza della disciplina; e temendo, soprattutto, di confondere il paese con il mondo, abbiamo cominciato ad allungar lo sguardo attorno, ovvero a leggere un poco più di quel che s’è scritto altrove, in altre nazioni, quelle in cui – almeno per quanto presso di noi sembra – il design ha avuto una storia disciplinare precedente o meglio chiarita… Ora, non è che la nostra ignoranza sia sparita d’un tratto, anzi s’accresce (strana cosa, codesta). Ciò che però ci pare è che per questa ingorda bestia ci sia cibo da mangiare, in discreta quantità, a voler abbandonare la dieta mediterranea finora per lo più seguita. Torneremo, speriamo, a più riprese su queste pietanze – tedesche e britanniche, ma anche americane ecc. –, piatti preparati con metodo e ricchi di storia. E molto pertinenti per i temi di cui ci vogliamo occupare. Giacché i musei sono proprio «istituzioni che conservano la storia e la memoria della storia» (Giovanni Pinna) – laddove conservazione è di materiali collezioni e di immateriali contenuti, i quali sono, ormai dagli Annali, documenti, materia prima per gli storici, dunque per l’interpretazione di ciò che è stato, di quel che siamo e pure, in funzione critica, di quel che potremmo essere.Un’interpretazione, dunque, che non deve essere ripetizione di un canone né giustificazione lineare del presente… E così, per trasferirci allo specifico del design, ci si potrà accontentare, per la sua storia e per la sua narrazione esposta (musei, mostre), solo di una sequenza di nomi, successi, prodotti? Sarà sufficiente una successione di icone o classici, sempre già visti, gli stessi pezzi in libri e riviste, nei musei e pure in fiere e showroom? Question propriamente di storia.Prendiamo spunto da un doppio paper davvero interessante, quello di Clive Dilnot, The State of Design History, I: Mapping the Field e II: Problems and Possibilities [1984] (in Design Discourse, a cura di Victor Margolin, University of Chicago Press, Chicago 1989, pp. 213-250); in realtà sono molti gli spunti, ma per ora ci soffermiamo su uno di quelli che aprono il secondo dei due saggi.Riporta Dilnot che negli anni trenta del Novecento a Cambridge Ivor Armstrong Richards, con uno dei suoi esperimenti di critica letteraria, dimostrò che «the most highly trained students of English literature could be taught what the canon of literature consisted of, but they could not produce for themselves its implicit variations. These findings produced a minor crisis within the study of literature and led almost directly to the domination of criticism in literary studies». Sicché la letteratura cominciò a essere ridefinita in termini di “valore” e lo studio della letteratura a esser circoscritto a un numero ristretto di testi “canonici”, con tre conseguenze: la negazione o la non considerazione della scrittura, dell’atto del comporre; la rimozione della storia dei testi e dei processi storici secondo i quali il canone della letteratura inglese è “prodotto” e non già dato; la riduzione dei testi inclusi nel canone a una unica identità (nazionale).Prosegue Dilnot, a chiarire il perché di tal esempio: «True, the parallel with literary studies should not be taken too far. At present, there is no real discipline of design criticism, but a canonical list of “important” designs and designers is rapidly being established […]» – ricordiamo che il testo è del 1984, ma le conseguenze ci paiono piuttosto attuali – «Therefore, the history of design in this sense is approaching a recitation of such “important” works, with the consequences that the historical processes that gave rise to them are gradually disappearing. The values that the “important” works possess are increasingly being tacitly accepted as lying outside the realm of history». E aggiunge: «Most important, the whole process tends to obscure, rather than to illuminate, the design process. Thus, the second effect of failing to distinguish the “multiple content of design”, as Necdet Teymur put it, is the paradox of removing history and design from design history!». La rimozione della complessità, l’appiattimento e la riduzione del design in una tradizione lineare di pezzi importanti, in un concetto indistinto – il Design – equivale alla perdita della dimensione storica, all’impossibilità di comprendere e di conoscere.«In professional design practice and design education, and now possibly in design history, a mystique of design, an almost mythic and artificial set of largely esthetic values, is being created. In history this development has the very real possibility of turning the writing history into the writing of myth.»Sicché, parlando di miti, Dilnot non può che rimandare alla viva parola del Roland Barthes di Mythologies (e che noi citiamo dall’edizione italiana Miti d’oggi, Lerici, Milano 1966, p. 142 s.): «… il mito ha il compito di istituire un’intenzione storica come natura, una contingenza come eternità. […] Al mito il mondo fornisce un reale storico, definito, per lontano che si debba risalire nel tempo, dal modo in cui gli uomini lo hanno prodotto o utilizzato; e il mito restituisce un’immagine naturale di questo reale». Il mito «si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle cose: le cose vi perdono il ricordo della loro fabbricazione»; il mito sottrae «alle cose il loro senso umano», il «rapporto dialettico di attività» e le riduce a «un quadro armonioso di essenze», ovvero «abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze»; inoltre costruisce un mondo privo di contraddizioni «perché senza profondità, un mondo dispiegato nell’evidenza, istituisce una chiarezza felice: le cose sembrano significare da sole»; ma il mito «non nega le cose, la sua funzione, al contrario, è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione». Per cui, laddove si intenda politica «nel senso profondo, come insieme dei rapporti umani nella loro struttura reale, sociale, nel loro potere di fabbricazione del mondo», ne consegue che il mito – la cui funzione, in definitiva è di «svuotare il reale […] un deflusso incessante, un’emorragia […] un’evaporazione, insomma un’assenza sensibile» –, insomma il mito «è una parola depoliticizzata» (dando al de- «un valore attivo» perché «rappresenta in questo caso un movimento operativo, attualizza incessantemente una defezione»).Dilnot non riprende Barthes per esaminare o verificare se si sia raggiunta quella «conciliazione del reale e degli uomini, della descrizione e della spiegazione, dell’oggetto e del sapere» (ivi, p. 250) che il francese auspicava in conclusione. Piuttosto, come noi “usiamo” Dilnot, lo colloca nel suo ragionamento per segnalare come il mito abbia finito per l’operare anche nella storia del design, manifestandosi nella «reduction of its subject matter to an unproblematic, selfevident entity (Design) in a form that also reduces its historical specificity and variety to as near zero as possible».Dilnot scriveva nel 1984. Per richiamare un’altra delle pietanze straniere cui abbiamo fatto cenno supra, dobbiamo pensare che in quegli anni, quelli del cosiddetto Nuovo Design, si poteva peraltro assistere a esposizioni dal titolo I mobili espliciti di per se stessi (Wuppertal, 1985; cfr. Bernhard Bürdek, Design. Storia, teoria e prassi del disegno industriale, Mondadori, Milano 1992, p. 65); certo qui le implicazioni erano anche altre – e si dovrebbe rendere conto di tanto altro di quel periodo e di molto altro sul disegno industriale.Per ora, suggiamo a noi stessi che dovremo valutare come si sia formato l’insidioso appiattimento destoricizzante – per tramite di storiografia, teoria, critica e curatori (per tutti: o sedicenti tali) – e se i suoi effetti siano ancora presenti, in qual misura e con qual peso per la cultura del progetto e la cultura in genere. In questo è proprio la storia a venirci incontro, giacché «la mitologia può avere solo un fondamento storico, perché il mito è una parola scelta dalla storia: il mito non può sorgere dalla “natura” delle cose» (sempre Barthes, Miti d’oggi, cit., p. 204). Barhtes si proponeva di “demistificare” – non che noi si creda di poter esser come lui, ma almeno di tenerlo come faro per guardare e interpretare, ché l’universo dell’intenzionalità mitopoietica ci pare non attenuarsi: «Il punto di partenza […] era il più delle volte un senso di insofferenza davanti alla “naturalità” di cui incessantemente la stampa, l’arte, il senso comune, rivestono una realtà che per essere quella in cui viviamo non è meno perfettamente storica: in una parola soffrivo di vedere confuse ad ogni occasione, nel racconto della nostra attualità, Natura e Storia, e volevo ritrovare nell’esposizione decorativa di ciò-che-va-da-sé l’abuso ideologico che, a mio avviso, vi nasconde».

Musei e IT

musei-itSegnaliamo Musei-it, portale dedicato ai temi dell’Information Technology nei musei e che raccoglie e accoglie contributi di operatori culturali, ricercatori, studenti e professionisti. Basato sulla collaborazione volontaria certo non è esaustivo in tutte le sue parti, tuttavia propone interessanti sezioni e strumenti, e anche documenti scaricabili, utili per chi si muova in questo settore.Oltre a costanti aggiornamenti (è possibile iscriversi alla mailing list) e un calendario di eventi (in Italia e all’estero), offre un’interessante raccolta di indirizzi e nominativi di aziende italiane «specializzate nelle applicazioni informatiche e multimediali per musei, gallerie, biblioteche e istituzioni culturali», una lista di corsi universitari dedicati al tema, e un indice in fieri che dovrebbe contenere “i migliori musei italiani” e che propone la possibilità di voto (una funzione/strumento che sicuramente sarebbe da migliorare, non essendo previsti criteri diversificati per valutare la qualità né la distinzione fra museo singolo e rete museale…).La sezione Risorse, infine, propone libri, articoli, link tematici, documenti e tesi di laurea, consentendo di scaricare in formato pdf alcuni materiali.Fra i recenti articoli pubblicati su Musei-it troviamo particolarmente interessante, per le considerazioni che contiene, quello di Ambra Carabelli, a proposito di un recente convegno tenutosi presso il Victoria & Albert Museum di Londra, Digital Dialogues.Lontana infatti dal cedere al fascino di innovativi progetti multimediali messi in campo da grandi strutture, nel suo resoconto infatti Carabelli riporta l’attenzione sull’utilizzo di strumenti semplici e gratuiti ma di grande impatto per visitatori e utenti dei musei. Così per esempio si concentra su una «microscopica realtà scozzese», l’East Lothian Council Museums Service che, in assenza di risorse economiche – un refrain noto in Italia, come scrive la stessa autrice: «Da Italiana, cresciuta con il ritornello nelle orecchie “non si può fare perchè non ci sono soldi”…» –, ha deciso di «investire in una strategia fortemente comunicativa, sfruttando il web e tutti i servizi gratuiti che questo produce». Insomma da flickr.com a youtube.com, da video.google.com a myspace.com, fino a facebook.com. Tutto pur di andare incontro al modello di comunicazione richiesto dai visitatori d’oggi, per mantenere vivo il legame con il pubblico, senza peraltro perdersi d’animo in assenza di budget consistenti, ché di fronte a carenti capacità tecniche, scarso personale e problemi di licenze – avrebbe detto il responsabile Peter Gray secondo quanto scrive Carabelli – «è molto più semplice chiedere scusa piuttosto che chiedere un permesso».Nello stesso articolo sono comunque segnalate anche alcune recenti iniziative dei “big” del settore, per esempio i digital photography programmes del V&A, i video Tateshots della Tate Modern, ma pure il podcasting di Wessex Archaeology, che consente di sottoscrivere podcast non necessariamente legati a specifiche esposizioni.

Contrappunto II
Leggere pulci per chi vuol leggere

pulciIn attesa di prendere visione di quello che sarà il Triennale Design Museum e in specie l’allestimento che pare ne sarà il fulcro, e più precisamente di capire come l’“installazione” filmico-cinematografica di Greenaway e Rota s’inserirà nell’architettura attentamente curata da Michele De Lucchi – per ora l’unico dato certo e tangibile del nascituro museo –, azzardiamo qualche riflessione sulle dichiarazioni d’intenti fatte durante la presentazione alla stampa del 21 settembre scorso. D’altronde poiché, stando alla cartella stampa, questo museo sarà «un’esposizione auto-riflessiva», noi possiamo darci il tempo per far le pulci, come si dice, per nostro uso e divertissement; alla fine dei conti, poiché solo sulle parole lavoreremo, potremo sempre dire che solo di un gioco di parole autoriflessivo s’è trattato. (Con un’avvertenza al lettore, poiché si apriranno molte parentesi ma si chiuderanno altrettante parentesi, e quel che tratterer[r]emo dentro potrà essere non meno interessante e autonomo di quel che resterà fuori.)Assumendo che la complessità è sempre difficile da gestire, integrando le componenti con coerenza e senza perdere in profondità, è evidente che in Triennale si è dato vita – con indubbio impegno – a una complessa articolazione di iniziative (ma appunto è una complessità voluta), che forse dall’esterno riesce difficile inquadrare ancora in una reductio ad unum intelligibile; ma può darsi il caso che nell’era delle contaminazioni e della multidisciplinarità ciò non sia da tutti inteso come difetto, e del resto le dichiarazioni son una cosa e i fatti un’altra, no?, e per questi – ancora una volta – dobbiamo avere pazienza.Data la nostra propensione a infilarci nel groviglio definitorio e terminologico (mea culpa) e a ritenere, per quanto ne sappiamo e per quante ne conosciamo noi (rispettivamente non molto e non molte, invero), che le parole abbiano un significato (anche se ciò non esclude il potere giocare con esse e ingannare), ci limitiamo a raccogliere qui solo alcune fra le affermazioni avanzate durante la presentazione alla stampa come fondanti per il Triennale Design Museum, che ci hanno suggerito qualche rilievo.1. La posizione di partenza per la creazione del Design Museum, ha detto Silvana Annichiarico, è stata precisa, ovvero «realizzare un museo innovativo che sia diverso dai musei già esistenti».2. Inoltre ha aggiunto uno degli autori dell’exhibit, Italo Rota, «non è una mostra ma è un museo di nuova tipologia»; un «museo/installazione dell’era dell’informazione visiva» (così in cartella stampa).3. Per quanto riguarda la collezione, valutando “arcaico e obsoleto” l’averne una di proprietà e, soprattutto, in considerazione del particolare contesto italiano – connotato da una presenza diffusa di “giacimenti” sul territorio, cioè archivi, musei, patrimoni delle imprese –, il Design Museum non avrà un proprio patrimonio/collezione, bensì attingerà a una rete di giacimenti, da cui “pescare” oggetti e “icone”. Anche perché il possesso di una collezione non collima, si è detto, con lo spirito della Triennale che è piuttosto produttrice di cultura4. Anche per l’“ordinamento”, ha detto sempre la direttrice del museo, si vuole prendere le distanze da modelli precedenti, in specie da quello dei musei d’arte figurativa, adottato in varie istituzioni già esistenti. Il Design Museum sarà perciò dinamico e mutevole, un work in progress da variare periodicamente e fondato sul desiderio di “imbastardire” la disciplina, mescolando, per sperimentare.5. È stato inoltre sottolineato più volte, dal presidente Rampello, da Annichiarico e dal curatore scientifico Andrea Branzi, che – superando l’impostazione che vede il design stretto fra arte e architettura, rispetto alle quali è stato a lungo posto in secondo piano – al centro sarà collocato non tanto l’oggetto in quanto tale bensì il contesto, fatto di emozioni, affettività, memorie, valori che aiutano a raccontare, nell’insieme, la storia di un paese, non solo materiale. Ovvero, come ha detto Greenaway, un museo degli oggetti senza oggetti.Ora, in astratto parlando, non ci sembra un ottimo criterio avviare un progetto tanto per fare qualcosa di completamente diverso da quanto già esistente [1]. O quanto meno dipende. Assumiamo pure che non in tal senso (cioè “faccio qualcosa solo per fare qualcosa di diverso dagli altri”) vada intesa la dichiarazione, ma approfittiamo per segnalare che – comunque inteso – si tratta forse di concept vago e buono per un certo marketing e per quella comunicazione cui fa buon gioco dimenticare che non c’è nulla di veramente nuovo (come qualcuno spesso rammenta). A noi pare, poi, che alle spalle del progetto dovrebbe esserci un’esigenza altra dal distinguersi a forza, un’esigenza che nel nostro caso dovrebbe essere quella di un museo del design italiano, in Italia, a Milano. “Ovvio!”, si dirà. Eppure non è così ovvio, né è questione di sfumature. Ammettiamo (ma si dovrebbe qui aprire ben altra parentesi) che l’esigenza di un tale museo si dia in Italia o per l’Italia; ma quali sono i soggetti che ne sono i portatori? Chi gli interessati? I turisti, i professionisti – nostrani e stranieri –, gli imprenditori, gli studenti, la società in genere? A chi di loro dunque si rivolgerà il nascituro museo? Dalle dichiarazioni ascoltate e lette nulla è stato detto chiaramente in proposito. Il museo includerà il design italiano del XX secolo, ed è stato detto che vorrà essere problematico piuttosto che fornire idee preconfezionate, essendo il design – sotto il profilo disciplinare – ancora in fase di inquadramento, dopo essere rimasto a lungo schiacciato fra architettura e arte. Ma per chi? Chi andrà nel museo?Se – come vogliamo immaginare – su questi aspetti i curatori hanno pensato e riflettuto, perché non dirlo anziché affidarsi a facili slogan? Va detto per esempio che online troviamo resoconto di un incontro avvenuto poco meno di un anno fa, sul tema del museo del design, durante il quale Andrea Cancellato, direttore generale de La Triennale, poneva i medesimi quesiti, che quindi sembrano non essere stati ignorati; ora, a pochi mesi dall’inaugurazione, però nulla vien detto di tale aspetto che non è certo accessorio. Così ci chiediamo se – certamente sotto l’accorta guida dei loro insegnanti, sicuramente preparati in materia grazie ai numerosi sussidi didattici disponibili in Italia per la formazione inferiore, media e superiore – al Design Museum si recheranno le scolaresche, così come affollano i musei d’arte, per ampliare la loro conoscenza del fare e dell’ars umani, e nello specifico italiani (se ciò abbia senso, poi).(Del resto [5] in tal caso che cosa potranno ricavare dal racconto in cui l’oggetto, il materiale si farà da parte rispetto all’apparato tecnologico mediale, al racconto filmico che proprio dell’oggetto [assente?] dovrebbe narrare il contesto? Se l’oggetto scompare o è in secondo piano, di che cosa sarà con-testo il contesto? Si vedrà più il mezzo o il contenuto, s’imparerà più dell’uno o dell’altro?)Parallelamente [2+3] ci chiediamo se l’uso insistito del termine “installazione” e il rifiuto di una collezione di proprietà non dicano più di quel che sembra. Cioè, se la separazione del momento della raccolta e della conservazione e di quello espositivo e allestitivo non rischi di generare un difetto, un peccato originale, in quell’area in cui si dovrebbero collocare fieramente il curatore e la ragione stessa di un museo (o Museo).Riconoscendo che, nelle sue vicende, sicuramente La Triennale è stata “produttore di cultura”, dinamico specchio del contemporaneo, ci chiediamo perché se ne voglia fare un museo, se – è detto dai curatori stessi – le caratteristiche proprie di un museo non coincidono con quelle in cui vuole identificarsi La Triennale, o viceversa. (Così, poi, in sede di presentazione del Design Museum si è inoltre appreso che per quest’ultimo sarà istituita una apposita Fondazione, altra rispetto a quella de La Triennale; eppure, non siamo certi che questa soluzione formale risolva i dubbi.) Domandiamo, ancora, perché si voglia essere – anzi “chiamarsi” – museo ma poi, siccome l’idea che si ha di museo in genere – quindi, fra l’altro, generica – non collima con i propri intenti, si pretende di fondare una nuova tipologia di museo. In Triennale insistono sull’aspetto sperimentale e problematico, sulla produzione culturale (by the way, parrà strano ma anche i musei sono produttori di cultura), sulla volontà di non cedere alla permanenza (quasi codesta fosse necessariamente un difetto, un sintomo di arretratezza; e pensare che in giro c’è qualcuno ancora che cerca un centro di gravità permanente). Il museo sarà un work in progress – si dice –, le installazioni indagheranno diverse problematiche (la prima di queste è “Che cos’è il design italiano”) per lasciare poi il posto a nuove tematiche e relative esposizioni. Ora, non è che si voglia negare l’importanza della sperimentazione e limitarsi a rinchiudere gli oggetti sotto vetro. Ma, a parte che non sono pochi i musei in cui si sono sperimentate modalità alternative e finanche multimediali di esposizione e narrazione (in alcuni, come il Science Museum di Londra, una sezione apposita è dedicata alla sperimentazione delle esposizioni, da includere eventualmente poi nell’allestimento permanente), esistono già – e da lungo tempo – altre tipologie espositive, senza scomodare i musei. Si pensi ai numerosi Science centre o “qualunque cosa” centre… (E del resto, per chi la voglia assumere, anche la più recente definizione di museo data da ICOM – certo non l’ultimo arrivato in questo campo – è tanto ampia che non occorre fondare nuove tipologie.)Ma già che ci siamo aggiungiamo una citazione, un appunto a quel che abbiamo scritto, in primis per noi stessi, per non vagare troppo guardando solo il nostro naso: «La diversità tra mostra e museo non sta solo nella dimensione temporale o nella priorità di conservazione del patrimonio e nelle funzioni connesse che il museo ha. La temporaneità dell’allestimento (la mutevolezza dell’esporre) permette di esaltare il carattere sperimentale e di ricerca nel campo ostensivo. Consente cioè una effettiva sperimentalità nei tipi di comportamento spaziale sul piano tecnico e tettonico e, non ultimo, nell’ordinare ed accostare innovativamente le opere. Ma è proprio questa caratteristica a connettere le esperienze della mostra con quelle del museo: la sperimentalità, come processo di costruzione del temporaneo, permette di configurare il definitivo come struttura nella funzione critica del mostrare» (Barbara Pastor, Note a margine, in Sergio Polano, Mostrare. L’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta / Exhibition Design in Italy from the Twenties to the Eighties, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988, p. 134).Su questo punto della temporaneità e dell’avvicendarsi delle esposizioni ci vogliamo soffermare ancora un poco. Perché è vero che in un museo l’attività di ricerca e aggiornamento sono importanti e devono avere manifestazione, devono mostrarsi – il che implica modifiche nell’allestimento e nella presentazione. Ma questa ricerca e aggiornamento – ci pare – sono colà in strettissima relazione con le attività di raccolta e ordinamento dei materiali, cioè in rapporto diretto con la costruzione e la organizzazione di quel patrimonio che in Triennale si è rifiutato, per volontà o necessità. Privata della struttura su cui esercitarsi, tanta sperimentazione non finirà con l’essere più prossima all’arbitrio mutevole e personale, o all’iniziativa artistica, che all’avanzare critico della ricerca?Ormai che siam qui, procediamo ancora oltre. Fra le ragioni di tanta carica sperimentale è l’“impressione”, condivisibile, che il design sia stato per lungo tempo stretto fra arte e architettura, rimanendo rispetto a queste in secondo piano [5]. Tant’è, è stato dichiarato, che nel nascituro museo si vuole prendere le distanze da modelli precedenti, in specie da quello dei musei d’arte figurativa [4], per «proporre ed elaborare ipotesi, letture, senza dare risposte precise e preconfezionate». (Ancora una volta risuona l’eco: s’ha da fare qualcosa di diverso.) Ma nella stessa sede è stato anche detto che il design è disciplina «remota ma non ancora sistematizzata» proprio sul piano disciplinare-scientifico. E, sempre nella stessa sede, dalla stessa bocca, si è parlato di «volontà di imbastardire la disciplina».I conti non tornano. Perché se il design è stato stretto fra arte e architettura così a lungo da non riuscire a emergere autonomamente, allora laddove la disciplina voglia affermare alcunché del proprio sé, prima d’imbastardirsi non sarà bene che ricerchi e dichiari (o almeno ci provi) i propri natali? Prima di vagare, non sarà meglio che il design faccia la propria genealogia, ricostruisca parentele, amicizie e confini, stabilisca la propria dimora, materiale e immateriale? E se il design è stato posto in secondo piano rispetto ad arte e architettura, come potrà guadagnare il proprio primo piano se non per quello che è: materia, oggetti, processi e ancora materia e oggetti, prima che / insieme con affetti, emozioni, valori?Se non si vorrà lasciare il design in secondo piano, perché farlo soggiacere al mezzo?E se non ci si vorrà rifare a modelli da museo d’arte figurativa, ci chiediamo perché non esplorarne altri (che poi è quel che vorremmo fare noi…)? Usare come parametro – benché negativo – solo e sempre il museo d’arte non è già il segno di un limite?Di nuovo, non è che non cogliamo in superficie il senso di quanto udito o letto. È che siamo un poco pesanti, e ci succede di andare a fondo. E qui intravediamo il rischio che, dichiarando di volersi sottrarre alle madri/matrigne, e imbastendo una giovanile crisi di rifiuto parentale, il design finisca con il vagare e perdersi (naturalmente senza mai trovare il centro di gravità permanente, ché come abbiam già detto la permanenza è da scartare). O, peggio, finisca con il seguire ora questo ora quel Lucignolo, in uno spettacolo circense, cacciandosi nelle mani di un impresario che ne faccia ciò che più gli aggrada. Proprio laddove si rifiuta il modello museale delle arti figurative, insomma, e pretendendo di fare alcunché di inedito e spettacolare, si rischia di cedere alla (relativa) imprevedibilità dell’installazione artistica (e per esempio non ci sono ancora, o quasi, immagini dell’allestimento del Design Museum), nel modello dell’arte contemporanea o post-postmoderna, fra proiezioni e multimedia, suggestioni per i sensi tutti e per tutti i gusti. Proprio laddove pretende di dare una visione diversa, rischia di ricadere nel già visto. Il dubbio si rafforza leggendo i comunicati; è qui che, per chiarire l’oggetto al centro dell’installazione Greenaway-Rota si dice: «Mettiamo insieme un oggetto e un nome del design italiano e la scena si fa più chiara – Olivetti, Lambretta, Vespa…»; è qui che apprendiamo che saranno presentati «gli oggetti più carichi di senso del design italiano del XX secolo nel contesto della storia e della cultura italiana», «cento oggetti significativi dell’Italia contemporanea» (d’altronde già supra [3] abbiamo riportato che s’è parlato di “icone”)… Pur volendo vedere anche questi, l’impressione di un déjà vu e lu – o meglio di preconfezionato – c’invade. (Del resto peggiore è l’impressione suscitata da un’altra considerazione che troviamo nello stesso foglio della cartella stampa, in cui si dice: «perché parliamo solo degli ultimi cinquant’anni? Perché non gli ultimi duemila anni? Bene, se dicessimo così, faremmo ingelosire tutto il resto del mondo, e l’invidia, come diceva Livio, è un’emozione distruttiva e corrosiva». Però qui ci avvaliamo di un laconico no comment.)Ma per tutto quanto detto la verifica l’avremo dal 6 dicembre. Per ora s’è giocato con le parole, in maniera autoriflessiva.

Contrappunto I

rassegnaCon riferimento alle dichiarazioni per il nascituro Design Museum, anziché lasciarci divagare nei nostri ragionamenti e ignoranze, abbiamo deciso di aprire qualche libro e rivista. Avendo peraltro l’impressione che stia diventando usuale la lettura “museo: sta per contenitore di mostre”, in cui le mostre stesse s’inseriscono peraltro in totale autonomia; subodorando profumi di installazione e d’artista più che di allestimento e di curatore; trovando spunto per capire se al design non accada ciò che già passarono architettura e arte: proprio le discipline dalle quali esso pretende di affrancarsi e con cui si ritrova invece a confronto nel museo, ovvero proprio quelle discipline nel cui grembo – dell’arte in specie – finisce con il ricadere anche quando pretende, urlando, di allontanarsene, con conseguente complicazione di intelligibilità.Leggiamo quanto scritto prima di noi, dunque; se non altro – a fronte di una esposizione che si definisce “auto-riflessiva” (e non pare una svista redazionale) – faremo operazione di riflessione.Cominciamo con Allestimenti/Exhibit Design, numero monografico di “Rassegna” (IV, 1982, n. 10, giugno) a cura di Pasquale Plaisant e Sergio Polano.Nel campo vario che si estende fra la «mostra come mercato, come esposizione di merci, fiera e standistica», e quel trasformarsi di raccolte attraverso «forme consapevoli del mostrare, conservare e costruire selezioni intenzionate di oggetti culturali e naturali» (vedi gallerie e musei), al centro della rivista viene posto l’allestimento di mostre in Italia, dall’inizio Novecento alla data della pubblicazione.Da qui traiamo alcuni brani di Germano Celant.È stimolante quanto scriveva un quarto di secolo fa Celant, Una macchina visuale. L’allestimento d’arte e i suo i archetipi moderni; stimola perché si potrebbe dire che per taluni aspetti parli già/ancora dell’oggi (anche se oggi l’Idea, di cui dice, non c’è più – dato che, certo, fa non poca differenza), mentre per altri aspetti fornisce un interessante base di confronto (per esempio allorché scrive del progetto abbozzato e del modello che allora prendevano il posto dell’edificare, laddove oggi le parti sembrano invertite; oppure per quanto il digitale oggi si affianca e sovrappone all’analogico):«Nell’arco di un decennio, l’arte e l’architettura si sono trasformate da produttrici di illusioni a ricettacoli di illusione. Alla messa in cantiere di argomenti di contemplazione e di rappresentazione, hanno preferito il piacere di essere ammirate ed effigiate. Il ruolo si è invertito, invece di far vedere e percepire spazi e immagini, per risultare quindi strumenti di mediazione verso il reale, l’arte e l’architettura si lasciano “vedere”. Concentrano sulla propria apparenza e superficialità ogni sguardo e si traducono in spettacolo di un’esistenza culturale, la cui realtà si dispiega non tanto nel procedere concreto, quanto nel “teatrale”, così da rendersi identiche a fondali e facciate.Non lavorando più sul rilevamento degli inganni visuali e ambientali, sono diventate opere di inganno, dove l’irreale e il rappresentato stanno al posto del modo di essere sostanziale. E poiché la scelta tende all’inattività, si potrebbe affermare che l’arte e l’architettura stanno proponendosi come “ready made”: operazioni linguistiche “già fatte”, la cui unica giustificazione di esistere sta nella semplice presenza più che nella complessa decostruzione e discussione dei propri linguaggi. Il processo in corso è quindi di autosuggestione: ci si riavvolge in se stessi con la giustificazione di un’analisi del passato e del flusso storico. Al contrario, la situazione è quella di dichiararsi “esterni” al proprio fare, eroi assoluti di un procedere che – come tutti i comportamenti narcisistici – muore di illusione e si glorifica nell’illusione di specchiarsi, almeno nell’Idea. Ma tutti sappiamo che il pensiero non può salvarsi altro che nella pratica e siccome l’unica rimasta, in questa condizione storica, è quella dell’esaltazione di ciò che non esiste, il sistema dell’arte e dell’architettura ha inventato la fuga nel territorio ideale, dove i linguaggi vivono una condizione illusoria, basata sulle folgorazioni e le rivelazioni di una cultura a venire.Siamo in pieno percorso cerimoniale: qui conta il travestimento e il potere dell’immagine, sorgenti di una figurazione futura, quasi ultraterrena. La memoria dell’idealismo, di nostalgica ascendenza non è lontana, ed è qui che prende forza l’apparato effimero dello spettacolo. Questo mantiene in vita e sostiene l’idea di un’identità operativa e di una catalogazione della totalità dei processi, che sono però scomparsi. Quanto si produce allora è una successione di “vedettes” che stimolano il desiderio ma non soddisfano i bisogni. Infatti bastano solo a se stesse, poiché il piacere deriva dall’essere riconosciute, cioè dall’essere mostrate.Attraverso la mostra, il fenomeno di apparenza si costruisce un territorio reale, prende la parola per supporre o affermare come già finita ogni emissione concreta. La superficie disegnata o dipinta, il progetto abbozzato e il modello si sostituiscono all’edificare, quasi la stesura di un acquarello o in grafite o in compensato prevalesse sulla realizzazione. Questo procedere, la cui elefantiasi è scoppiata nell’ultimo decennio, è stato assunto con l’alibi della negazione creativa e improduttiva dell’architettura. Ora, l’arte e l’architettura si sono sempre esaltate nella negazione, ma questa era di ordine problematico, poteva corrispondere a una crisi della funzione pubblica o personale dell’architettura, ma non era un veicolo di spettacolarizzazione e di consumismo. Il proliferare del “mostrismo” da parte delle istituzioni pubbliche tende infatti ad affermare l’apparenza del fare, pertanto la negazione dell’agire artistico ed architettonico si rivela favorevole a una pratica che vive sulla “manifestazione”, su un processo che non ha alcun fine o scopo, altro che se stesso. L’attuale economia della cultura vive su questo sistema, dove il principale prodotto è rappresentato dal mostrare e dal mostrarsi. Con la prevalenza della mostra sull’attività, l’arte e l’architettura si stanno formulando secondo le richieste spettacolari, spesso tematiche, dei musei, delle gallerie, degli editori e delle riviste, delle Biennali e delle Triennali. La pratica lascia il posto ad una costruzione di immagini e di progetti, la cui ragione d’essere è di provare l’esistenza dell’arte e dell’architettura, come pensieri che hanno perso la loro funzione agente.Gli apparati pubblici fanno vedere che i linguaggi esistono, ma li spingono sempre più ad esprimersi in forma di comunicazione scritta e disegnata, dipinta e modellata. Così che si vedano, ma non manifestino alcun effetto, se non quello di essere mostrati. La loro occupazione è quindi di esistere quali beni culturali da consumarsi in superficie: su muro, su pagina e su schermo.L’azione si accompagna altresì a un divismo culturale, che vede nella cerimonia espositiva il valore sociale, dove tutto è sospeso in attesa dell’acclamazione. Ne consegue una ricerca di perfezionamento del trucco e del maquillage, in cui la maschera domina sul vissuto. È il principio della facciata, dove l’articolazione strutturale si trova rimpiazzata da un’immagine che esiste al di sopra e nel contempo si fa conoscere come unica realtà. Questo sviluppo, che sottomette l’attore al fondale, trasferisce tutto il valore della ricerca al metodo della sua spettacolarizzazione. Se la formulazione delle intenzioni si fa essenziale, la vera forza diventa la tecnica espositiva. Ora, se il contenuto sta nella forma dell’esposizione e la dimostrazione è affidata alla maniera con cui si mostra, il pretendente all’originalità diventa la macchina visuale dell’allestimento» (ivi, p. 6).E ancora, riprendendo i brani conclusivi dell’excursus storico che Celant fa di seguito, rammentiamo per rendere giustizia alla relatività, e avendo memoria che poco o nulla di nuovo si dà:«Tra i pochi a reagire al riduttivismo e al minimalismo delle macchine allestitive “astratte” furono i surrealisti. Per loro lo stato della contemplazione era percorso da turbe e ossessioni, incubi e visioni. Non poteva quindi rapportarsi ad una condizione afisica e asensoriale, quanto comprendere l’assordante rumore dell’eros e della tattilità, del viscerale e dell’organico. Più che una passeggiata nel vuoto, una loro mostra risultava un viaggio nelle viscere dell’inconscio. Il loro interesse era piuttosto portato alle sollecitazioni sensoriali e fantastiche, dove contavano gli accenti dell’esterno, quali lo sporco, l’errore, il sesso, il disordine, l’imprevisto, il disgusto, la paura, la perversione… insomma tutto quanto serviva a provocare un urto psicofisico. Si giustifica quindi la loro ostilità all’ibernazione parietale, poiché questa gelava l’occhio e la partecipazione. […] A ben riflettere, i surrealisti non potevano rinunciare a considerare le loro opere come elementi di scena, per cui li utilizzavano per le proprietà spettacolari. E per ottenere un risultato teatrale apprestavano dispositivi complessi, da tecnologia cinematografica» (ivi, pp. 10-11).

Frasi da una (non) esposizione (di oggetti)

Milano, 21 settembre 2007, presentazione del Triennale Design Museum.*Davide Rampello, presidente La Triennale:«… era necessario avere non un allestimento normalmente inteso, ma una vera e propria messa in scena, che sarà temporanea, non duratura. […] Nei musei stranieri l’allestimento è semplice, organizzato per anni, autori o tipologia. Ma ciò toglie all’oggetto l’affettività, la memoria, la contestualizzazione. […] Il museo non è solo di oggetti ma un museo installazione, fatto di immagini, contestualizzazioni […] con la tecnologia oggi disponibile abbiamo bisogno di professionisti in grado di farsene interpreti.»Michele De Lucchi, progettista del restauro architettonico:«Bisogna ringraziare Muzio, che fece tutto questo con grande preveggenza. Muzio l’ho incontrato più volte nella mia vita professionale […] certamente questo è l’edificio più efficiente che ci abbia lasciato […] è pieno di sorprese.[…] Si nasce incendiari e si muore pompieri… Io ho avuto la mia prima uscita pubblica proprio qui, davanti alla Triennale. Venni qui nel 1973 per contestare la Triennale e non avrei mai pensato che mi sarei occupato della sua ristrutturazione.»Silvana Annichiarico, direttore Design Museum:«Ci siamo mossi da una posizione precisa: un museo innovativo e diverso dai musei esistenti nel mondo.[…] Tutti i musei del mondo si basano su una collezione di proprietà. Noi non abbiamo voluto farlo. È un concetto arcaico e obsoleto, e non è nello spirito della Triennale. Ci baseremo su giacimenti già esisteni, pescando oggetti e icone. Per l’ordinamento non ci rifaremo al modello del museo d’arte figurativa; sarà un museo dinamico e mutevole […] un work in progress da mutare periodicamente […] una volontà di imbastardire la disciplina, mescolando, per sperimentare…»Andrea Branzi, curatore scientifico:«Fare il museo del design a Milano è certo più difficile che in altre capitali perché qui il design corrisponde a una forma di cultura civile, di energia evolutiva in cui si riconoscono tante vicende. […] Con Rota e Greenaway abbiamo innanzitutto voluto rimuovere la convenzione dei musei del design che fanno risalire il design a solo due secoli di storia, che vuol dire restringere la storia a eventi limitati e solo in funzione del gusto del mercato e degli oggetti domestici. […] in nessun altro paese si è investito tanto su oggetti e prodotti non solo come categoria di mercato ma anche di valori di natura spirituale e filosofica che vanno oltre gli usi e la tecnologia […]. Il design è stato a lungo schiacciato fra arte e architettura, invece per noi permette di capire molto della storia italiana non solo materiale; è importante fare capire le ossessioni, i segni ricorrenti, teoremi, che hanno un’origine molto antica. […] È una forma di museo problematica, che si rinnova di continuo, esplorando molteplici settori […]. Questo museo affronta un tema su cui pesano ancora certe ristrettezze – il design delle grandi serie, dei materiali industriali – mentre il design italiano non è mai stato questo, ha sempre saputo usare la piccola serie, o anche il pezzo unico, a volte sono stati più importanti i prototipi… […] Cercare di trasmettere al visitatore la curiosità e la disponibilità all’approfondimento piuttosto che formule preconfezionate.»Peter Greenaway, exhibition design:sottolinea due “metafore” per il Triennale Design Museum:«1. Museo come Teatro2. Esposizione/mostra di oggetti senza gli oggetti.»Inoltre ricorda che si vuole che la mostra stessa sia percepita come oggetto.Italo Rota, exhibition design:«… Legno e cinema saranno gli unici elementi del linguaggio usato.Per ora non è possibile fare vedere come sarà l’allestimento, perché sarebbe troppo difficile.»*nota: i brani riportati potrebbero essere non perfettamente puntuali, dunque sono da non considerare come precise citazioni; tuttavia si tratta di testi abbastanza fedeli a quanto detto.Si veda anche la cartella stampa de La Triennale