Museo dell’educazione, Padova

Ben nove sono a Padova, città universitaria di lunghissima tradizione, i musei legati all’attività didattica e sperimentale d’ateneo, facenti capo a un Centro che ne coordina le attività, in specie di promozione.Abbiamo cominciato con il visitare – era il 24 luglio – il Museo dell’Educazione e il Museo delle macchine Enrico Bernardi, anche con l’idea di verificare, per i nostri obiettivi, se si possa dire quel che sosteneva e auspicava Giorgio Dragoni, Per un dibattito sulla museologia scientifica e naturalistica italiana. La rete dei musei universitari, in Stanze della meraviglia. I musei della natura tra storia e progetto, a cura di Luca Basso Peressut, Clueb, Bologna 1997, p. 299, ovvero che musei come questi, legati in specie alle discipline scientifiche, potrebbero essere i «luoghi in cui le due culture [vedi Charles Percy Snow] si potrebbero incontrare, con una considerevole potenzialità e sinergia», e che con la loro valorizzazione «potrebbero essere proprio i musei scientifici e naturalistici. Le possibilità di collaborazione interdisciplinare sarebbero enormi, come enorme sarebbe l’impatto sulla cultura italiana».E con l’idea, inoltre, che il design sia un “luogo” in cui si dà – nei fatti, negli artefatti e nelle narrazioni che se ne possono fare – l’incontro fra le due culture. (Su questo si veda anche Tomás Maldonado, Disegno industriale: un riesame, VII ed., Feltrinelli, Milano 2005, pp. 15-18.)Va detto che il Museo dell’Educazione – Dipartimento di Scienze dell’Educazione, in via degli Obizzi 23, alle spalle di piazza dei Signori – ha una storia più recente rispetto ad altre collezioni nate dall’effettiva attività dei dipartimenti universitari. Nasce infatti nel 1993, a cura della professoressa Patrizia Zamperlin, che ne è ancora responsabile, dalla consapevolezza che una gran parte del patrimonio relativo al “fare” scuola stava rischiando di andare perduto, sottraendo documenti importanti relativi alla vita scolastica, che si compone non solo di norme e programmi ma di sussidi didattici e materiali vari da preservare. Con la consapevolezza che non si danno cesure, l’idea fu quella di documentare però l’intero percorso formativo, sia scolastico sia domestico, composto di libri tanto quanto di giochi, dall’infanzia fino agli anni universitari. Insomma, non Museo della scuola ma Museo dell’Educazione.Nel 1993 l’avvio fu con una mostra presso la sede della scuola progettata da Camillo Boito; nel 1997 l’apertura nella sede di via degli Obizzi, dove si trova tuttora – gli spazi, in affitto, sono invero limitati e limitanti, ma non manchino, a quanto pare, oltre all’entusiasmo della curatrice, progetti per un possibile trasferimento in futuro. È qui, al secondo piano, che Patrizia Zamperlin accoglie non solo i visitatori – molto spesso delle scuole inferiori – ma anche gli studenti del Dipartimento, per i quali il Museo offre gli strumenti per vedere e riflettere su valori, impostazioni, mutamenti degli approcci pedagogici e del sistema formativo. Anche perché alto è il numero di libri didattici e testi scolastici conservati, e non solo con lo sguardo rivolto al passato bensì con progetti di ricerca attivi per il presente e il futuro – come la partecipazione a Edisco, progetto nazionale per la costruzione di una banca dati di testi scolastici dal 1800 a oggi, o l’Osservatorio nazionale su quaderni ed elaborati didattici Fisqed (Indire, Firenze). È inoltre centro di deposito per i materiali censiti dalla Banca dati educazione d’arte della Biblioteca di documentazione pedagogica nazionale, relativi alla didattica museale – non solo cataloghi ma anche letteratura grigia, cd, dvd…Superato l’ingresso – dove accanto a un perfetto signor Bonaventura trovano spazio un’“edicola”, in cui sono raccolte pubblicazioni varie per bimbi e giovinette d’altri tempi, e un armadio con diplomi, medaglie e copricapo per laureati – si accede alle quattro sale del Museo. A sinistra c’è il salone d’accoglienza – biblioteca, dove espositori per emeroteca disegnati da Gio Ponti – recuperati e adattati saggiamente, così come la maggior parte dei materiali e dei mobili presenti – ospitano nella parte superiore una serie di pagelle di vari anni e provenienza (interessante osservare la grafica, in specie di quelle d’epoca fascista) e nel loro ventre i volumi e i documenti raccolti per il citato progetto relativo alla didattica museale. Oltre alle librerie vetrate, fitte di volumi per lo più ingialliti, una scrivania e molte sedie, un grande armadio anch’esso vetrato, e anch’esso recuperato, contiene strumenti didattici per l’insegnamento di materie scientifiche e di agraria. È qui che si possono osservare modelli di specie animali, strumenti per esperimenti scientifici e sempre qui si può leggere, per esempio, Il giovinetto campagnuolo (XL ristampa) di Felice Garelli, ovvero Prime nozioni di morale, di igiene e d’agricoltura per le scuole primarie rurali (e si noti l’ordine delle specificazioni). In questa sala, in cui è difficile evitare che l’occhio sviluppi un suo percorso di curiosità e domande fra i numerosi materiali, si trovano altresì una lunga custodia nera che nasconde uno schermo avvolgibile, all’apparenza pesante ma che si svolge verso l’alto con un semplice gesto – progetto di metà Novecento da fare invidia ai designer d’oggi –, e un televisore a 24 pollici Geloso, GTV1041, funzionante e che verrà utilizzato per le attività propedeutiche per le visite di scolaresche.Le prime due sale alla destra dell’ingresso ospitano, in successione, giochi, libri e oggetti vari legati alla formazione dell’infanzia, in ambito più domestico che didattico. Rispecchiando la distinzione allora esistente fra maschi e femmine, i materiali offrono l’idea di destini già segnati: dalle bambole ai lavori donneschi, da un lato, e da triciclo e palloni fino allo studio (si veda il “banco a uso famiglia” o i giochi “scientifici”), dall’altro. L’allestimento propone sempre una “contestualizzazione”, per quanto possibile, affiancando agli oggetti esposti fotografie e pagine di giornali o riviste, per consentire di ricomporre il quadro di mentalità e visioni che proprio nella didattica avevano uno specchio importante. La terza e ultima sala, infine, ospita la ricostruzione di un’aula scolastica così come poteva essere organizzata, nello spazio e negli oggetti, fra Otto e Novecento, con banchi di diverso tipo – perché di fronte all’usura non si procedeva con la sostituzione degli arredi – e una cattedra ottocentesca – ma con il piano rifatto – collocata su una predella a due scalini – un vero e proprio “palco” che dice molto sui tempi che furono, e ampio a sufficienza perché un insegnante potesse trascorrerci anche tutte le ore di lezione senza dover scendere. Alle pareti un crocifisso e una cornice vuota (quella destinata all’immagine del re), un appendiabiti; e poi un pallottoliere, un mappamondo, due armadi con diari, pennini e inchiostro, sussidi per l’insegnamento. Fra i due armadi, interessantissimo, un piccolo banco per le lezioni all’aperto, con le bretelle per il trasporto, la sacca di tela per contenere i libri e con la seggiolina coordinata – con gli assi in legno, tipo “osteria”.È qui che termina la visita: per le scolaresche con una “simulazione”, un tuffo in un’altra epoca e il cimento dello scrivere con pennini e inchiostro; per studenti universitari d’oggi e curiosi forse con il ricordo dei ricordi, quelli dei nonni, e l’impressione che oggetti, strumenti, testi possano raccontare molto. Purché opportunamente messi in relazione, esposti e narrati. Insomma studiati. Le due culture si incontrano nei fatti, di fatto. Si tratta di non perderne traccia, di ricomporre il ponte fra allora e ora. È in musei come questo che si ha la viva percezione della continuità pur nella distanza, e di come quest’ultima abbia a volte a che fare con la personale ignoranza o indifferenza. Così, leggendo il saggio di Patrizia Zamperlin su Pesi e misure, non solo una questione di numeri. L’insegnamento del sistema metrico decimale dall’Unità ai nostri giorni, m’è accaduto di stupirmi e scoprirmi a riflettere a proposito delle difficoltà che la diffusione del sistema metrico incontrò nell’Italia ottocentesca: “non ci avevo pensato più… o mai?” – anche con un poco di vergogna.Ieri, domenica 29 luglio, “Il Sole 24 Ore” a p. 38 riportava un breve testo di Mauro Mancia, neurofisiologo e psicoanalista, scomparso il 25 luglio, il quale raccontava di avere dedicato tutta la vita alla conoscenza dell’“interno”, a come funzionano il cervello e la mente: «Ho trascurato gli oggetti della realtà. Non conosco il forno a microonde, litigo spesso con il telefonino, ho un rapporto complesso con il computer. Per poter lavorare con il computer ho dovuto immaginare che abbia un inconscio per cui ti può gratificare tradire frustrare […] Laddove non riesco a scorgere l’inconscio degli oggetti non riesco ad avere un buon rapporto con loro e loro mi ripagano di uguale moneta». Ciascuno vive a suo modo il rapporto individuale con gli individui oggetti, ed è bene e auspicabile che sia così, in tutte le sfumature personali che possono darsi. Ma, dall’altro lato, la collettività degli artefatti, degli usi, delle storie particolari compongono il tessuto di quella cultura materiale che parla dell’umanità nel suo sviluppo, della società in tutte le sue facce, rispetto alla quale, nel complesso, sarebbe spiacevole, collettivamente, rimanere indifferenti.vedi la galleryMuseo dell’EducazioneUniversità degli studi di PadovaDipartimento di Scienze dell’EducazioneCentro di Pedagogia dell’Infanziavia degli Obizzi 2335122 Padovawww.musei.unipd.it/educazione/index.html