Museo dell’educazione, Padova

Ben nove sono a Padova, città universitaria di lunghissima tradizione, i musei legati all’attività didattica e sperimentale d’ateneo, facenti capo a un Centro che ne coordina le attività, in specie di promozione.Abbiamo cominciato con il visitare – era il 24 luglio – il Museo dell’Educazione e il Museo delle macchine Enrico Bernardi, anche con l’idea di verificare, per i nostri obiettivi, se si possa dire quel che sosteneva e auspicava Giorgio Dragoni, Per un dibattito sulla museologia scientifica e naturalistica italiana. La rete dei musei universitari, in Stanze della meraviglia. I musei della natura tra storia e progetto, a cura di Luca Basso Peressut, Clueb, Bologna 1997, p. 299, ovvero che musei come questi, legati in specie alle discipline scientifiche, potrebbero essere i «luoghi in cui le due culture [vedi Charles Percy Snow] si potrebbero incontrare, con una considerevole potenzialità e sinergia», e che con la loro valorizzazione «potrebbero essere proprio i musei scientifici e naturalistici. Le possibilità di collaborazione interdisciplinare sarebbero enormi, come enorme sarebbe l’impatto sulla cultura italiana».E con l’idea, inoltre, che il design sia un “luogo” in cui si dà – nei fatti, negli artefatti e nelle narrazioni che se ne possono fare – l’incontro fra le due culture. (Su questo si veda anche Tomás Maldonado, Disegno industriale: un riesame, VII ed., Feltrinelli, Milano 2005, pp. 15-18.)Va detto che il Museo dell’Educazione – Dipartimento di Scienze dell’Educazione, in via degli Obizzi 23, alle spalle di piazza dei Signori – ha una storia più recente rispetto ad altre collezioni nate dall’effettiva attività dei dipartimenti universitari. Nasce infatti nel 1993, a cura della professoressa Patrizia Zamperlin, che ne è ancora responsabile, dalla consapevolezza che una gran parte del patrimonio relativo al “fare” scuola stava rischiando di andare perduto, sottraendo documenti importanti relativi alla vita scolastica, che si compone non solo di norme e programmi ma di sussidi didattici e materiali vari da preservare. Con la consapevolezza che non si danno cesure, l’idea fu quella di documentare però l’intero percorso formativo, sia scolastico sia domestico, composto di libri tanto quanto di giochi, dall’infanzia fino agli anni universitari. Insomma, non Museo della scuola ma Museo dell’Educazione.Nel 1993 l’avvio fu con una mostra presso la sede della scuola progettata da Camillo Boito; nel 1997 l’apertura nella sede di via degli Obizzi, dove si trova tuttora – gli spazi, in affitto, sono invero limitati e limitanti, ma non manchino, a quanto pare, oltre all’entusiasmo della curatrice, progetti per un possibile trasferimento in futuro. È qui, al secondo piano, che Patrizia Zamperlin accoglie non solo i visitatori – molto spesso delle scuole inferiori – ma anche gli studenti del Dipartimento, per i quali il Museo offre gli strumenti per vedere e riflettere su valori, impostazioni, mutamenti degli approcci pedagogici e del sistema formativo. Anche perché alto è il numero di libri didattici e testi scolastici conservati, e non solo con lo sguardo rivolto al passato bensì con progetti di ricerca attivi per il presente e il futuro – come la partecipazione a Edisco, progetto nazionale per la costruzione di una banca dati di testi scolastici dal 1800 a oggi, o l’Osservatorio nazionale su quaderni ed elaborati didattici Fisqed (Indire, Firenze). È inoltre centro di deposito per i materiali censiti dalla Banca dati educazione d’arte della Biblioteca di documentazione pedagogica nazionale, relativi alla didattica museale – non solo cataloghi ma anche letteratura grigia, cd, dvd…Superato l’ingresso – dove accanto a un perfetto signor Bonaventura trovano spazio un’“edicola”, in cui sono raccolte pubblicazioni varie per bimbi e giovinette d’altri tempi, e un armadio con diplomi, medaglie e copricapo per laureati – si accede alle quattro sale del Museo. A sinistra c’è il salone d’accoglienza – biblioteca, dove espositori per emeroteca disegnati da Gio Ponti – recuperati e adattati saggiamente, così come la maggior parte dei materiali e dei mobili presenti – ospitano nella parte superiore una serie di pagelle di vari anni e provenienza (interessante osservare la grafica, in specie di quelle d’epoca fascista) e nel loro ventre i volumi e i documenti raccolti per il citato progetto relativo alla didattica museale. Oltre alle librerie vetrate, fitte di volumi per lo più ingialliti, una scrivania e molte sedie, un grande armadio anch’esso vetrato, e anch’esso recuperato, contiene strumenti didattici per l’insegnamento di materie scientifiche e di agraria. È qui che si possono osservare modelli di specie animali, strumenti per esperimenti scientifici e sempre qui si può leggere, per esempio, Il giovinetto campagnuolo (XL ristampa) di Felice Garelli, ovvero Prime nozioni di morale, di igiene e d’agricoltura per le scuole primarie rurali (e si noti l’ordine delle specificazioni). In questa sala, in cui è difficile evitare che l’occhio sviluppi un suo percorso di curiosità e domande fra i numerosi materiali, si trovano altresì una lunga custodia nera che nasconde uno schermo avvolgibile, all’apparenza pesante ma che si svolge verso l’alto con un semplice gesto – progetto di metà Novecento da fare invidia ai designer d’oggi –, e un televisore a 24 pollici Geloso, GTV1041, funzionante e che verrà utilizzato per le attività propedeutiche per le visite di scolaresche.Le prime due sale alla destra dell’ingresso ospitano, in successione, giochi, libri e oggetti vari legati alla formazione dell’infanzia, in ambito più domestico che didattico. Rispecchiando la distinzione allora esistente fra maschi e femmine, i materiali offrono l’idea di destini già segnati: dalle bambole ai lavori donneschi, da un lato, e da triciclo e palloni fino allo studio (si veda il “banco a uso famiglia” o i giochi “scientifici”), dall’altro. L’allestimento propone sempre una “contestualizzazione”, per quanto possibile, affiancando agli oggetti esposti fotografie e pagine di giornali o riviste, per consentire di ricomporre il quadro di mentalità e visioni che proprio nella didattica avevano uno specchio importante. La terza e ultima sala, infine, ospita la ricostruzione di un’aula scolastica così come poteva essere organizzata, nello spazio e negli oggetti, fra Otto e Novecento, con banchi di diverso tipo – perché di fronte all’usura non si procedeva con la sostituzione degli arredi – e una cattedra ottocentesca – ma con il piano rifatto – collocata su una predella a due scalini – un vero e proprio “palco” che dice molto sui tempi che furono, e ampio a sufficienza perché un insegnante potesse trascorrerci anche tutte le ore di lezione senza dover scendere. Alle pareti un crocifisso e una cornice vuota (quella destinata all’immagine del re), un appendiabiti; e poi un pallottoliere, un mappamondo, due armadi con diari, pennini e inchiostro, sussidi per l’insegnamento. Fra i due armadi, interessantissimo, un piccolo banco per le lezioni all’aperto, con le bretelle per il trasporto, la sacca di tela per contenere i libri e con la seggiolina coordinata – con gli assi in legno, tipo “osteria”.È qui che termina la visita: per le scolaresche con una “simulazione”, un tuffo in un’altra epoca e il cimento dello scrivere con pennini e inchiostro; per studenti universitari d’oggi e curiosi forse con il ricordo dei ricordi, quelli dei nonni, e l’impressione che oggetti, strumenti, testi possano raccontare molto. Purché opportunamente messi in relazione, esposti e narrati. Insomma studiati. Le due culture si incontrano nei fatti, di fatto. Si tratta di non perderne traccia, di ricomporre il ponte fra allora e ora. È in musei come questo che si ha la viva percezione della continuità pur nella distanza, e di come quest’ultima abbia a volte a che fare con la personale ignoranza o indifferenza. Così, leggendo il saggio di Patrizia Zamperlin su Pesi e misure, non solo una questione di numeri. L’insegnamento del sistema metrico decimale dall’Unità ai nostri giorni, m’è accaduto di stupirmi e scoprirmi a riflettere a proposito delle difficoltà che la diffusione del sistema metrico incontrò nell’Italia ottocentesca: “non ci avevo pensato più… o mai?” – anche con un poco di vergogna.Ieri, domenica 29 luglio, “Il Sole 24 Ore” a p. 38 riportava un breve testo di Mauro Mancia, neurofisiologo e psicoanalista, scomparso il 25 luglio, il quale raccontava di avere dedicato tutta la vita alla conoscenza dell’“interno”, a come funzionano il cervello e la mente: «Ho trascurato gli oggetti della realtà. Non conosco il forno a microonde, litigo spesso con il telefonino, ho un rapporto complesso con il computer. Per poter lavorare con il computer ho dovuto immaginare che abbia un inconscio per cui ti può gratificare tradire frustrare […] Laddove non riesco a scorgere l’inconscio degli oggetti non riesco ad avere un buon rapporto con loro e loro mi ripagano di uguale moneta». Ciascuno vive a suo modo il rapporto individuale con gli individui oggetti, ed è bene e auspicabile che sia così, in tutte le sfumature personali che possono darsi. Ma, dall’altro lato, la collettività degli artefatti, degli usi, delle storie particolari compongono il tessuto di quella cultura materiale che parla dell’umanità nel suo sviluppo, della società in tutte le sue facce, rispetto alla quale, nel complesso, sarebbe spiacevole, collettivamente, rimanere indifferenti.vedi la galleryMuseo dell’EducazioneUniversità degli studi di PadovaDipartimento di Scienze dell’EducazioneCentro di Pedagogia dell’Infanziavia degli Obizzi 2335122 Padovawww.musei.unipd.it/educazione/index.html

Parlar d’oggetti
Radio games

radiogamesGli oggetti possono essere guardati, toccati, manipolati, usati, consumati… Ma degli oggetti si può anche parlare. Radio games è un programma radiofonico, “un viaggio attraverso i miti, gli oggetti, i giochi che hanno fatto o fanno parte della nostra vita. La trasmissione effettua una ricognizione dettagliata e ricca di originalità sul lungo filo della memoria per quanto riguarda gli aspetti del passato mettendoli spesso in contrapposizione con le nuove tendenze e con il grande ricorso alle tecnologie applicate al gioco, che spesso fanno perdere identità stessa agli oggetti che accompagnano il tempo libero”. Così recita la presentazione del programma nel sito web delle rubriche di Radio Uno. “Miti, persone, cose” è lo slogan d’ingresso della trasmissione. Fra recensioni di libri e mostre, testimonianze personali, interviste, l’archivio delle puntate – che può essere esplorato per date o parole chiave – offre una serie di racconti e curiosità che vanno dal jukebox alle 40 candeline della rivista “Linus”, dai cimeli sportivi ai giochi, dalla Lambretta alla 600, dai libri fino al forno a microonde, dalle scatole per caramelle ai manifesti, dai fumetti al tostapane (con la sua fenomenologia), dalle patatine fritte (“inventate” nel 1853)… riuscendo a ricomporre i nessi fra consumi, società, usi e costumi, memorie individuali e collettive, letteratura, arte, cultura materiale. Da ascoltare.

Letture domenicali
Object Lessons

sunday_bookIl libro nell’immagine qui sopra è un esempio di “Sunday Book” d’età vittoriana. Ricaviamo l’informazione da un sito per la verità non molto ricco ma interessante fin dal titolo, www.objectlessons.org, che appunto fornisce alcune “lezioni” – schede – dedicate a oggetti di varie epoche. L’iniziativa è della Islington Education Library di Londra, una cui sezione è la Artefacts Library che – rimandando a Confucio: «Se sento dimentico, se vedo ricordo, se faccio comprendo» – promuove «object handling, an active form of learning that engages and inspires pupils and students and enriches the classroom». Le collezioni includono differenti oggetti, dalle maschere dell’Amazzonia alle carrozzine per bambini, da scheletri – alcuni veri, altri di plastica – a polli fabbricati con plastica riciclata, costumi… tutti a disposizione per gli insegnanti, per raccontare storie e completare con un tocco e più di realtà i programmi didattici. I docenti possono richiedere in prestito i materiali, registrandosi e compilando una scheda, ma una parte dei materiali è resa visibile e accessibile online, nel sito Object Lessons (fra l’altro uno dei 150 siti sovvenzionati con i fondi della lotteria).Qui gli oggetti sono presentati sotto sette temi – abiti, casa, lavoro, infanzia, salute, conflitti – a loro volta suddivisi in periodi storici oppure secondo i continenti e le culture d’origine. I criteri non sono del tutto rigorosi, così un aspirapolvere Hoover si trova sotto “lavoro” mentre un ferro da stiro si trova sotto “casa” –, e anche i “quadri interattivi” non sono propriamente eccellenti. Tuttavia, forse proprio il carattere contenuto dei materiali presentati e la contestualizzazione del loro uso proposta nelle schede invitano a soffermarsi un poco.Per esempio con riferimento al libro nell’immagine viene spiegato che in età vittoriana la domenica doveva essere rigorosamente dedicata al riposo, come la Bibbia raccomandava; no lavoro, negozi chiusi, niente sport – o tempora o mores? –, ma anche niente disegno o pittura, sicché la lettura rimaneva l’unico passatempo concesso, dopo la chiesa, per i pomeriggi domenicali. Per i bimbi, in particolare, però, solo poche letture erano consentite, come il libro qui sopra, del 1890, il cui carattere moraleggiante s’intuisce già dai contenuti: due bambini che fanno l’elemosina per i poveri, fuori dalla porta di una chiesa.Domani è domenica: si legge!

Memorie di cose
Non briciole insipide, ma un unico pane

gibelli_biciclettaLuciano Gibelli, Memorie di cose. Attrezzi, oggetti e cose del passato raccolti per non dimenticare, 2 voll., Priuli & Verlucca Editori, Pavone Canavese (Torino) 2004; in questi volumi, esito di un lavoro trentennale («una lunga […] ricerca – iniziata nel 1974 – svolta soprattutto in Piemonte», ma con prima edizione nel 1980; ivi, p. 45) e ricchi di disegni, dello stesso autore, viene svolto un vero e proprio racconto che sgorga dagli oggetti tradizionali, dalla cultura materiale di una regione, costituita del resto non solo dagli oggetti in sé ma da tutto quel che attorno a essi si è mosso e si può ancora muovere: ricordi, innanzi tutto, ma poi ricette, lavorazioni, narrazioni, usi, costumi, linguaggio, storia sociale… L’autore precisa che «il contenuto di questo lavoro non può essere letto come un romanzo, partendo dalla prima pagina, su un “filo” che si conclude e completa all’ultima; tutt’altro, in questo caso i termini sono capovolti: occorre partire dall’indice [oltre 30 pagine] per orientare il proprio interesse e soltanto così, forse, potrà accadere al Lettore sensibile di ricevere l’impressione che trasmettono gli oggetti; commuovendosi, appassionandosi, stupendosi, turbandosi, trepidando anche, come leggesse davvero un romanzo» (ibidem). Partendo dalla constatazione che «di antichi oggetti, procedimenti od altro talvolta non esiste un corrispondente vocabolo italiano […] così come a precise definizioni in italiano non corrispondono vocaboli in lingua piemontese», l’autore costruisce un testo che «non solo apparentemente […] procede senza soluzione di continuità. Ho voluto in tal maniera ritrarre il fascino del conversare che si faceva nelle veglie serali d’un tempo, vale a dire il non attenersi ad un argomento prefissato, senza sapere dove conducesse esattamente il discorrere mentre vagava da un fatto reale ad un ricordo» (ibidem). Nelle speranze di Gibelli, quel che ne esce è «un piccolo museo pieghevole, da tenere in un angolo della libreria». Nella libreria, ma, precisa subito dopo Gibelli, «se il caso desse che il Lettore possedesse una vecchia casetta in campagna ed accanto al camino vi sopravvivesse ancora una sia pur vetusta camminiera, ebbene questi fogli li metta in prima fila su di un ripiano, perché è lì il posto che spetta loro». Considerazione poetica e immaginifica, che invero molto dice su quel che un museo può o deve essere, su quel che può e dovrebbe fare con gli oggetti e i patrimoni che in esso si trovano, sottratti, strappati o comunque materialmente slegati dal contesto d’origine, proprio quel contesto che – in tutti i suoi aspetti – deve essere da essi testimoniato, raccontato, indagato, esposto, comunicato. I libri di Gibelli possono essere considerati allora un’opera museografica (del resto lo stesso autore parla di come «i problemi della sede, dell’organizzazione, della conduzione insieme a tanti altri impedimenti» abbiano ostacolato per lui e altri «Uomini meritori e Comunità previdenti» (ivi, p. 47), che tanti oggetti, attrezzi, mobili, vestiti, ecc., hanno raccolto sottraendoli al tempo e all’oblio). Senza per ciò voler finire con il leggere il museo come testo, l’oggetto come testo. È piuttosto il senso dello studio, della ricerca e dell’autorialità del curatore che ci interessa. Rigorosa e insieme appassionata, magari a tratti nostalgica – nel caso di Gibelli – ma consapevole. «E così, raccogli e conserva, raccogli ed ammucchia, oggi posso aprire il mio cofano affinché a tutti, per mezzo di questi fogli, pervenga il piacere che provavo io quando – approfittando dell’ora dedicata al pisolino – andavo nascostamente a frugare nel cassetto del Nonno – tutto suo – per far la conta dei bulloni, dei dadi, delle ranelle ormai inusabili che formavano il suo tesoro. Oggi più che mai» (ivi, p. 49).gibelli_mezzamanicaNon ci si stupirà di ritrovare nel “cofano” di Gibelli – oltre a piante ed erbe «usate in passato nei casi più disparati, talvolta incredibili», di cui pure egli ha raccolto e offre notizie, nella parte conclusiva del libro – le forme da burro come pure il giogo, la campana e il torchio a vite discendente, i polsini e lo stiratore litico, ma anche, fra le “schede” – tutte connesse nel fluire del discorso –, una dedicata al carrozzo: «antenato indiscusso del Go-Cart» la cui realizzazione «ci promuoveva tecnici, ingegneri, elaboratori, carrozzieri, piloti, cronometristi, giudici di gara ed Artigiani con l’A maiuscola [magari, aggiungeremmo oggi, pure designer]» (ivi, p. 583). Non si tratta però di scheda tutta abbandonata alla memoria d’infanzia e gioventù – come invece avviene maggiormente per quella dedicata alla “invenzione del motorino”, da parte di tal Masino Culasso «il 27 maggio 1936, vale a dire una decina di anni prima della nascita della Vespa, della Lambretta, del Cucciolo, del Mosquito e di tutti gli altri motorini» – ché Gibelli da solo si richiama: «bando alla poesia e via al linguaggio tecnico: DESCRIZIONE OGGETTIVA E CARATTERISTICHE», che segue puntualmente nel dettaglio di materiali, ruote, sospensioni, propulsione, snodo, freni, sedile.Non mancano all’appello la grattugia (gratusa comun) e il tostino (brusacafè), la macchina da caffè e il tirabrace, i chiodi e la zucca da vino (bot), ma si trovano anche unità di misura (diverse per ogni capoluogo di provincia) e addirittura le “istruzioni per l’uso del pesatore”, o ancora la mezzamanica (angagianta), su cui ci soffermiamo.Di questa Gibelli non solo dice che «era portata in ufficio dagli impiegati del tempo che fu e che anch’io ebbi ancora la ventura di conoscere, al mio primo impiego, opera della Mamma e dono per consacrare la mia trasformazione in lavoratore (d’Azienda Privata) con qualcosa di significante […] e per difendere le maniche della giacca nuova»; non solo nota che forse «pochi sanno che anticamente la Mezzamanica s’usava al singolare, montata solo sul braccio destro (ma il sinistro dove lo tenevano?), probabilmente per ragioni d’economia e forse il suo evolversi al plurale significò e fu la testimonianza misconosciuta d’un lento progredire sindacale, di traguardi salariali»; ma anche si spinge a «celebrare tutto ciò», a modo suo, dice, «con quattro notiziole storiche che devono aver influito parecchio sull’organizzazione del lavoro burocratico:- 1830: Celestino Galli, di Carrù (1804-1866), inventa il Potenografo, il primo congegno – si può dire – per scrivere premendo su dei tasti [a tal proposito si veda anche quanto descritto in Waldimaro Fiorentino, Sistemi di scrittura specialistica, in “Scienza e Tecnica”, LXVI, 2003, n. 394, giugno, a p. 16 scaricabile online];- 1855: Giuseppe Ravizza, avvocato, archeologo e storico di Novara (1811-1885), brevetta il suo Cembalo scrivano, macchina per scrivere a “scrittura visibile” realizzata fin dal 1846, presentata all’Esposizione di Torino del 1858 e di cui ne costruì ben 12 modelli, via via perfezionandoli;- 1868: il 13 agosto nasce ad Ivrea Camillo Olivetti, futuro professore alla Stanford University, che fonda in Italia dapprima l’industria degli Strumenti di Misura(1896) e poi quella delle Macchine per Scrivere (1909);- 1880: in dicembre il Senato italiano adotta la Michela, ossia la Macchina Fonostenografica inventata da Antonio Michela […]sono date e Uomini piemontesi che, non soltanto per i burocrati, sconvolsero irreversibilmente l’uso del calamo», del quale segue, o meglio s’inserisce presso che senza soluzione (se non per via di regole e usi tipografici) una dettagliata scheda, e così via (ivi, pp. 246-248).gibelli_calamaioNeppure stupirà, dunque, di trovare minerali e armi, tarocchi piemontesi, incisioni rupestri, la bicicletta – e la sua storia –, monete e strumenti d’ogni genere, e inoltre pietanze e ricette – come la Pasta e fagioli oppure la Bagna Càuda, e qui è la nostra personale memoria a correre fino alla nonna materna…A proposito delle ricette, ancora una riflessione: nell’introduzione ai due volumi, Gibelli precisa difatti che per il «“collaudo” [delle ricette e dei vari preparati] ho usato quasi sempre i vecchi sistemi di manipolazione degli ingredienti, eccezion fatta per l’uso del mortaio che ho sovente sostituito con il moderno macinino-frullatore elettrico». Non è questa la migliore ammissione che la storia dell’uomo e dei suoi “gesti” si snoda con continuità, lungo un filo irriducibilmente materiale?E che, insomma, la storia è una, come diceva Roland Barthes che recuperiamo facendo riferimento a quel che Sergio Polano ha scritto, Per una critica degli artefatti umani, in “dezine”, 2001, n. unico, maggio, pp. 1-2: «Preferirei, infatti, che degli artefatti e dei loro artefici, degli artifizi e degli arti, delle singolari imprese e delle plurali industriosità che li condizionano e li consentono, si tentasse e si provasse, con tutti i rischi che ciò comporta, l’ipotesi pregiudiziale di scrutarne la complicanza intrinseca e assieme la strutturale unità soggiacente, niente affatto riducibile in toto a (né risolvibile entro) compartimentati saperi specializzati e specialistici – profondi, selon moi, solo se maniacalmente specifici tanto quanto aperti al confronto sereno –, e si rinunciasse ad affidarsi esclusivamente a disgiunte ragioni estetiche o a banali poetiche individuali, a vieti economicismi meccanici o al comodo riparo dell’azione di un qualche misterioso genius loci e via discorrendo, separando in bricioline insipide il gusto e la forma unica di un solo, unico pane. È quanto, fuor di metafora, si può meglio esprimere (e anche, per chiarezza di scienza, porre all’egida di una palese dichiarazione di parte, sottoscritta in pieno da chi scrive) con una concisa citazione di Roland Barthes, ove egli ragiona a proposito di apparentemente lontani ma sostanzialmente prossimi problemi (le scritture), concludendo che: “c’è una filosofia della Storia: cioè che la Storia è una e unica”». Così scriveva Polano a ricordare che «gli “oggetti di disegno industriale”, nella loro significativa varietà (assai meno casuale di quanto possa apparire, tanto son affamiliati spesso) andrebbero soppesati, confrontati e messi a fuoco nel panorama del trascorrere di geografie storiche e di topografie cronologiche, ogni volta del tutto peculiari», senza ridursi alla bilancia estetica del bello/brutto, giacché – com’egli dichiara, per sé – «l’ambizione [è] di occuparmi d’arte, delle arte e degli arti: la maggior parte degli “oggetti di disegno industriale”, fors’anzi tutti gli artefatti umani, null’altro sono infatti che protesi, estrinsecazioni, estrusioni, oggettualizzazioni e oggettivazioni artefatte delle prestazioni del corpo; il bello e il brutto restino materia e affare di chi (avendone il tempo e le capacità) si diletta di estetica e la crede una disciplina storicamente consolidata (ma non ha più o meno due secoli and a half? oserei credere forse pochi, a fronte dell’umana industria, “disciplina” dell’homo sapiens e faber che spazia […] per almeno 40 migliaia d’anni). Comunque sia, credo che “potrà comprendere appieno l’arte – come ben spiegava Konrad Fiedler, già nel secolo passato (affinando altrui filosofiche idee di più antica data), in uno dei suoi Aphorismen, il 36 – solo chi non le imporrà una finalità estetica né simbolica, perché essa è assai più che un oggetto di eccitazione estetica e, più che illustrazione, è linguaggio al servizio della conoscenza”».

Cultura materiale
Cm #1. Tentativo di definizione 1

zanetti_strumentiRecentemente, a fronte di una dichiarazione del mio interesse verso la cultura materiale, una persona – inglese (forse va precisato?) – mi ha chiesto «What do you mean?». Già… che cosa intendo?Il titolo di questo post potrebbe far credere che io voglia avventurarmi in una prova di autonoma definizione. In realtà ho pensato bene di riprendere in mano le pagine del volume dell’Enciclopedia Einaudi – opera mirabile – dedicate da Richard Bucaille e Jean-Marie Pesez alla voce “cultura materiale” (Enciclopedia Einaudi, IV: Costituzione-Divinazione, Einaudi, Torino 1978, pp. 271-305), al fine di segnare pro memoria (mea) alcuni punti e spunti senza cui non potrei procedere. Cominciamo con una parte della voce.L’approccio degli autori conforta e sostiene. Con la consapevolezza che «nonostante il suo significato globale appaia evidente – come spesso accade per le idee e le espressioni che il ricercatore usa quotidianamente [eccomi qui!] –, la nozione di cultura materiale continua ad essere, di fatto, imprecisa e insieme contraddistinta dall’illusione della trasparenza»; con la coscienza che dell’espressione viene fatto un uso tanto diffuso quanto indefinito, allora la strada da seguire non può scendere da un a priori che «non terrebbe conto in modo esauriente dei significati concreti» e dell’uso che i vari autori hanno fatto di questa idea. Per prima cosa la recensione degli usi; quindi, il bilancio; infine le considerazioni che se ne potranno trarre. (E qui è già una lezione di metodo.)È proprio ripercorrendo l’emergere della nozione e le sue “applicazioni”, che si scopre, scrivono Bucaille e Pesez, che se pure si tratta di idea variamente adattatasi alle esigenze epistemologiche di diverse discipline (scienze umane), la nozione di cultura materiale manifesta anche «una stabilità epistemologica» e una presenza costante tali da far pensare che «corrisponda a una necessità delle scienze umane e che la soddisfi» (pp. 271-272).Detto ciò, gli autori ripercorrono preistoria e storia della nozione, prima di tentarne la definizione.1. (Il substrato: le scienze umane) La preistoria della nozione (pp. 272-274) introduce nel mezzo di una “rottura epistemologica” (Althusser) (metà XIX sec. circa), quella preparata nel secolo dei Lumi e a inizio Ottocento, favorita da eventi politici, compagna di viaggio della rivoluzione industriale e della nascita degli stati dell’Europa che abbiamo conosciuto; una rivoluzione che, si noti, nonostante gli oppositori/tradizionalisti, riesce a «ottenere la fiducia dei […] contemporanei, per lo più sotto forma di cattedre d’insegnamento». Si tratta di un movimento che nasce da una nuova problematica ideologica – relatività e contingenza di ogni oggetto della scienza – e genera una nuova metodologia – sperimentazione pratica, confronto di dati, dimostrazione per prova e verifiche ecc. Fra le discipline coinvolte:- la preistoria, nascente con Boucher de Perthes: Antiquités celtiques et antédiluviennes (1847) e De l’homme antédiluvien (1860);- teoria della storia e dell’economia, con Karl Marx e Friedrich Engels: Manifest der kommunistischen Partei (1848), Das Kapital (1867);- antropologia sociale e culturale: Edward B. Tylor, Primitive Culture (1871), Lewis H. Morgan, Ancient Society (1877);- paleontologia: Charles Darwin, On the Origin of Species (1859);- fisiologia e medicina: Claude Bernard.Insomma, «semplificando alquanto, si può dire che è allora che il pragmatismo ha largamente la meglio sull’idealismo». E se pure non si può dire che la nozione di cultura materiale faccia allora la sua precisa comparsa, tuttavia «è allora che si elaborano le condizioni sociologiche e scientifiche» per la sua nascita.«Questa nozione […] diventa possibile dal momento in cui […] cambia la definizione delle finalità e dell’oggetto scientifico e si sviluppa una metodologia che presuppone il ricorso al concreto, al tangibile, al materiale», sia questo l’utensile e l’osso per l’archeologo, i dati monetari e le quantità di materie prime misurati da Marx, gli oggetti di diverse civiltà per gli antropologi, gli animali reali studiati da Darwin. E ancora si possono richiamare – per precisare questo substrato – gli oggetti (veramente) anonimi delle civiltà dissepolte contro gli oggetti d’arte, il materialismo storico di Marx, le collezioni etnografiche di oggetti nate un po’ ovunque ecc. Un vero e proprio Zeitgeist, che include le leggi sociali, la separazione fra Chiesa e Stato, il naturalismo di Zola ecc.Senza trascurare, segnalano gli autori, quella sociologia che, verso la fine del XIX secolo, per opera e nell’opera di Émile Durkheim faceva spazio anche agli «aspetti materiali della civiltà, quelli che, nella terminologia marxista, corrispondono al campo delle infrastrutture» (una sociologia diversa dall’attuale, e più simile all’odierna antropologia sociale e culturale). Benché poi Durkheim stesso si sia volto piuttosto alle sovrastrutture.(i)2. (La storia) La storia della nozione (pp. 275-277) prende avvio propriamente con l’inizio del XX secolo, non solo come contenuto indispensabile per le discipline già citate ma anche per questioni metodologiche, in particolare a opera «degli intellettuali che scoprono e diffondono il pensiero marxista». E il riferimento imprescindibile è naturalmente alla fondazione nel 1919 della Akademija istorii material’noj kul’tury, in Russia, con decreto di Lenin: conferma, scrivono gli autori, del «legame che c’è sempre stato tra l’idea di cultura materiale, il socialismo in genere e il marxismo» (e, preciserebbe forse qualcuno, motivo di tanto perdurante e ottuso “abbandono” e fraintendimento del tema). Ma anche «ingresso ufficiale della nozione nel campo della storia». E, fra 1920 e seconda guerra mondiale, storici – per lo più quelli che «guardavano al socialismo» – sono stati gli studiosi che se ne sono maggiormente occupati.Terreno fertile la Francia, in cui dopo gli sforzi per l’elaborazione di una storia nazionale «che legittimasse sul piano ideologico il nuovo Stato repubblicano e centralizzato», si assiste alla reazione di studiosi fra cui spiccano i nomi di Marc Bloch e Lucien Febvre, i fondatori del gruppo delle “Annales”, orientati a dare voce, anziché a re e avvenimenti eccezionali, ai “muti della storia”. Un «compito immenso», in effetti.Ma la storia della cultura materiale prosegue anche sotto le altre discipline: gli studi preistorici (anche perché non ha a disposizione documenti scritti) e l’antropologia di Durkheim e Marcel Mauss, raccolta nella redazione dell’“Année sociologique”. Anche se, come già detto, «l’antropologia, nonostante sembri aver contribuito notevolmente alla sostituzione di una storia della cultura alla storia di gesta, ha continuato tuttavia, per proprio conto, ad attribuire ai fenomeni materiali propriamente detti solo un’importanza secondaria», mostrando maggiore attenzione per i fenomeni simbolici e le rappresentazioni mentali. Fatte salve eccezioni insigni – vedi André Leroi-Gourhan – nel suo complesso l’antropologia «non si è mai interessata molto alla cultura materiale».3. (L’archeologia) Per proseguire nella storia della nozione (pp. 277-279), si deve tenere conto che nella fruttuosa relazione instaurata dagli storici con la cultura materiale, per quest’ultima s’insinua una difficoltà evidente, un limite: le fonti storiche, infatti, sono i documenti scritti, e tali che, «si rarefanno rapidamente man mano che si risale nel tempo».È stata l’archeologia, o meglio il metodo archeologico, a mostrare quale contributo la cultura materiale può dare anche a problematiche storiche. L’esempio più eccellente viene dalla Polonia del dopoguerra, dove alcuni storici, per dimostrare che le origini della loro nazione in nulla erano debitrici al mondo germanico, utilizzarono operazioni di scavo sistematico, dimostrando l’esistenza di una cultura originale. Era l’avvio dell’archeologia medievale, sviluppatasi anche in altri paesi europei; per esempio in Inghilterra, dove storici e archeologi insieme hanno tentato di porre rimedio «alle carenze delle fonti scritte», anche perché «la documentazione classica, scritta o visiva, può cogliere ampi settori della cultura materiale, ma non ne rende che un’immagine riflessa, soggettiva e già interpretata, e quindi necessita di cautele». Viceversa l’archeologia «mette direttamente in contatto con il materiale stesso, che si può toccare, esaminare, e interpretare, senza il pericolo d’errore dovuto alla soggettività della documentazione». Come indicava Leroi-Gourhan, solo «l’archeologia non ha limiti di documentazione nello spazio e nel tempo», fornendo un bacino di informazioni precise e numerose tali da consentire «sintesi generali e particolareggiate», per cui «gli storici contemporanei non sbagliano a fare sempre più assegnamento sulla documentazione loro offerta dagli archeologi».Tant’è che forse la cultura materiale è destinata a essere una sorta di «archeologia metodologicamente ed epistemologicamente rinnovata».Ma, aggiungiamo noi, il “destino”, rispetto all’anno di redazione della voce dell’Enciclopedia, dovrebbe essersi forse già compiuto?(continua)(i) Sul tema “sociologia e cultura materiale” torneremo in seguito, anche con riferimento al testo di Mario Gandolfo Giacomarra, Una sociologia della cultura materiale, Sellerio, Palermo 2004, che invero segue un percorso per noi non del tutto limpido nelle sue concatenazioni – senza con ciò voler certamente qui attribuire la causa all’autore –, percorso in cui si parla di antropologia e sociologia, di cultura materiale e semiotica, di operatori culturali e di problematiche museali, proponendo un interessante caso studio, ovvero le saline di Trapani.Nella Presentazione Giacomarra segnala come per lungo tempo sociologi (quelli della “Sociologia della cultura”, non tanto della “Sociologia dei processi culturali” come è chiamata oggi) e antropologi hanno faticato a incontrarsi sul terreno della “cultura”, laddove i primi, scrive, hanno inteso non l’«espressione di popoli o gruppi d’interesse etnologico» ma il «prodotto di operatori culturali che, di mestiere “producono cultura” o […] “producono eventi”»; mentre i secondi si sarebbero attenuti alla versione di Edward B. Tylor, quindi una cultura «accostata nelle società complesse ai dislivelli sociali, per cui si articolava in strati culturali diversi o si distingueva, contrapponendole, una cultura egemonica e una subalterna». Ora, prosegue l’autore, se per cultura materiale si intende «il complesso di attività lavorative tradizionali cui le comunità si dedicano, gli strumenti di lavoro di cui dispongono, le connesse strutture sociali e i relativi apparati simbolici», e se a lungo di ciò si sono occupati gli antropologi, è tuttavia da considerare che «nell’uso delle tecniche tradizionali di produzione e lavorazione non c’è solo una dimensione culturale, ma ce n’è anche una sociale tutta da investigare». Di qui l’idea di proporre una “sociologia della cultura materiale”, dice, «non per inventare nuove sigle ma per ampliare l’ambito di interesse della sociologia della cultura».E qui particolarmente abbiamo per ora difficoltà a seguirlo, nella Presentazione come nello sviluppo che del tema viene dato all’interno del libro: «Il sociologo della cultura, colui che accentra i suoi interessi sugli operatori e i promotori della cultura, può a sua volta cogliere il significato e il senso del valore semiotico della cultura materiale e delle iniziative intese a documentarla, tutelarla, valorizzarla e offrirla alla fruizione. Si apre così agli aspetti sociologici della complessa problematica museale, nel passaggio dal valore d’uso al valore segno degli oggetti» – è una sensazione, o si sta dicendo che l’oggetto entra nel museo solo in quanto trasfigurato in segno? sarà questo il motivo per cui fatichiamo a seguirlo? – «dal tempo in cui essi servivano alla produzione a quello in cui diventano testimonianze di realtà trascorse ma ancora avvertite come proprie delle comunità interessate».Ma su questo testo, e sulle perplessità in merito, è nostra intenzione ritornare, per capire se il difetto sia in noi o, in qualche modo, nelle tesi proposte.