Memorie, oggetti, cari estinti:
nello Spazio, sotto terra, nella rete o in un museo?

Si penserà che non val nemmeno la pena di ragionar di loro, insomma «guarda e passa». Tuttavia, trovandoci a riprendere, dopo che altre cose ci han distratti – precisamente mi han distratta, ché una sono, dietro il noi –, decidiamo di farlo con un pezzo facile. Però partiamo da lontano, tanto per allargare il tratteggio.caroestinto1Nel 1938, per l’Expo di New York del 1939, la Westinghouse Electric & Manufacturing Company decise di realizzare la prima “Time Capsule”, una capsula concepita per contenere – sotto le categorie Small articles of common use, Textiles and materials, Miscellaneous items, Essay in microfilm, bobine RKO – materiali, semi, tessuti, artefatti vari, libri, riviste e microfilm pensati per essere riesumati a distanza di 5000 anni. Un tentativo di preservare in uno la storia della nostra (noi chi?) civiltà. Sepolta 50 piedi sotto terra, sotto il parco Flushing Meadows – sede dell’Expo – la prima capsula fu seguita nel 1964, sempre in occasione dell’Expo a New York, da una sorella, “Time Capsule II”, sepolta nella stessa area, a poca distanza, anch’essa ideata – con diversi contenuti secondo cinque categorie, Articles in common use, Atomic energy, Scientific developments, Space, Other – per essere aperta nel 6939. Al fine di assicurare il rinvenimento di tale preziosa memoria e, inoltre, la possibilità di comprenderla e utilizzarla, già nel 1938 fu stampato un libro – stampato in 3000 copie e inviato a biblioteche e musei (oggi reperibile anche online da www.archive.org/), con un aggiornamento nel 1965 – contenente riferimenti utili a collocare nel tempo e nello spazio le capsule (il 1939 in particolare). Non solo, pensato per essere letto anche da civiltà future, il libro contiene la propria stessa chiave di lettura, ovvero un sistema di illustrazioni che dovrebbero aiutare gli archeologi del settimo millennio a interpretare la lingua inglese. Per ogni altro dettaglio si rimanda ora alla dettagliata pagina di Wikipedia, da cui ricaviamo anche che è disponibile un filmato d’epoca, estratto da “The Middleton Family at the New York World’s Fair” parte della collezione “1939-40 New York World’s Fair”; mentre immagini dal Westinghouse Museum, che includono anche la replica della capsula, possono essere trovate qui ; infine, la lista dei contenuti inseriti nelle due capsule si trova anche qui.Trascurando le esperienze che certo molti di noi hanno fatto nella loro infanzia (chi non ha seppellito in giardino un vasetto con monetine e soldatini?), l’idea di realizzare capsule del tempo, da allora, ha avuto seguito, in vari paesi e in varie forme, dalla sepoltura di “previsioni futuristiche” – come quella del “Chicago Daily Tribune”, sigillata nel 1958 per essere aperta nel 2000 (ricaviamo la notizia da www.paleofuture.com) – alla capsula realizzata in occasione di un’altra Expo, quella di Osaka nel 1970, contenente 2098 pezzi, fino al progetto per una sorta di monumento-piramide per contenere 120.000 capsule, il Millenium project (che tuttavia, a giudicare dal sito relativo, del 1997, pare essere finito nel vuoto, e non indaghiamo oltre)… rimandiamo per qualche ulteriore ragguaglio a due articoli su www.americanheritage.com e www.repubblica.it.caroestinto2Nel 1948 Evelyn Waugh scrisse un breve romanzo dal titolo The Loved One: An Anglo-American Tragedy – in italiano Il caro estinto –, da cui nel 1965 Tony Richardson – sulla base della sceneggiatura di Terry Southern http://en.wikipedia.org/wiki/Terry_Southern (lo stesso di Dr. Strangelove / Il dottor Stranamore) e Christopher Isherwood – trasse l’omonimo, bellissimo, film. Oltre il cuore del racconto – su cui pensiamo di tornare in seguito, per il ricco calderone di spunti, fra memoria, imbellettamento, falsificazione, ricostruzione –, fra le varianti e variazioni adottate in sede cinematografica una gustosissima trovata è quella dell’invio nello spazio dei corpi dei cari estinti, ultimo traguardo dell’arte funeraria.caroestinto3Nel 1972 e nel 1973, le sonde spaziali Pioneer 10 – la prima a inviare immagini di Giove e il primo «oggetto creato dall’uomo a lasciare il sistema solare» – e Pioneer 11 – anch’essa passata per Giove, e la prima sonda a osservare Saturno, prima di uscire del pari dal sistema solare – furono dotate, fra le altre cose, di una placcarecante un «messaggio dell’umanità» verso eventuali forme di vita intelligente extraterrestri. La piastra (15,2×22,9 cm), in alluminio anodizzato dorato, recava incise – su progetto di Carl Sagan e Frank Drake – le rappresentazioni simboliche della sonda stessa, della transizione dell’idrogeno (ritenuto l’elemento maggiormente presente nell’Universo), delle figure dell’uomo e della donna, della posizione relativa del sole nella galassia e di 14 pulsar, e del sistema solare.caroestinto4In seguito, la NASA decise di realizzare un messaggio più «esteso ed eclettico», una sorta di storia/compendio del nostro pianeta, per forme di vita extraterrestre oppure terrestre, ma del futuro, da includere nel programma Voyager. Il risultato fu il Voyager Golden Record, inserito nelle sonde Voyager 1 e 2, entrambe lanciate nel 1977. Il disco, in rame placcato d’oro, conteneva – contiene – una selezione di immagini e suoni operata da un comitato presieduto da Carl Sagan (si veda anche Murmurs of Earth Clavicembalo ben temperato): 115 immagini e una varietà di suoni naturali (dal tuono agli uccellini), 90 minuti di musiche rappresentative di diverse culture (fra cui il Clavicembalo ben temperato di Bach, eseguito da Gould… niente di italiano, invece a quanto pare), saluti espressi in 55 lingue del mondo (italiano incluso) e i messaggi di Jimmy Carter e dell’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kurt Waldheim.caroestinto5Tra le altre iniziative più recenti e fresche di idee, abbiamo trovato segnalato un concorso di bellezza di raffinata concezione e destinato a proiettarsi nel futuro, proprio qui in Italia! Si tratta del progetto Pulchra, che come leggiamo dal sito è «un concorso che riguarda la bellezza artificiale, più precisamente quella degli oggetti. Ogni anno, per dieci anni, verranno presentati al pubblico cento oggetti, scelti, da una commissione di esperti, per la loro bellezza. Il pubblico voterà, per un intero anno, per stabilire quali siano i dieci oggetti più belli tra i cento in concorso; a fine anno i cento oggetti saranno classificati da uno a cento, in funzione del numero di voti presi da ognuno. […] I dieci oggetti vincitori del concorso, verranno rinchiusi in una capsula di acciaio e sepolti in un parco pubblico. Sopra a questo interramento si costruirà un giardino. Anno dopo anno, nel parco, in superficie, crescerà un mosaico di piccoli giardini d’autore e, sottoterra, crescerà un museo della bellezza artificiale del nostro tempo, accessibile solo agli archeologi che lo troveranno, forse, tra mille anni». Ora, senza nemmeno voler esplorare la ratio precisa della specificazione “artificiale” vicino a “bellezza”, anche il solo pensiero di voler seppellire la bellezza fa rabbrividire, quanto meno. Ma quali sono questi cento oggetti selezionati dalla commissione di esperti? Si va dalla Marathon Vintage di Adidas all’Olio Sasso, dal diamante Leo Cut allo scarpone da sci Tecnica, dalla boccetta di CKOne alle scarpe Clarks, dalla Lady Arflex al Sacco Zanotta…Qualche perplessità sull’iniziativa viene dalla ignota commissione di ignoti esperti, dei quali infatti non è dato in alcun modo conoscere i nomi (del resto il regolamento è fitto di dichiarazioni “non responsabilità” da parte degli ideatori), come pure dall’assenza di riferimenti a società, persone identificabili. È per questo, anche, che tanto vale guardare e passare avanti, almeno finché – se a qualcuno interessi – non saranno svelati i voti e i vincitori, e forse i nomi allora compariranno (ma i 10.000 euro si vincono quest’anno o allo scadere del decennio). Era solo così… tanto per scrivere qualcosa. Comunque, se qualcuno fosse allettato, non si faccia tante illusioni, il regolamento è ferreo: il voto è gratuito –pensa un po’ – ma non si può votare più di una volta al giorno.caroestinto6Mentre c’è chi vuol seppellire la memoria sotto terra, c’è anche chi si ostina a moltiplicare le iniziative virtuali. Ultimo – anche se il progetto non nasce oggi – è il MuViUS, il Museo Virtuale del Design, realizzato da Ufficio Stile. Per fortuna, come dichiarato nella presentazione, «MuViUS non ha la velleità di aggiungersi ai prestigiosi musei già esistenti – reali e virtuali – che con il contributo di qualificati curatori, critici ed esperti hanno selezionato i pezzi più rappresentativi del design internazionale». Intento è invece «costruire un percorso nell’evoluzione culturale degli spazi collettivi degli ultimi 40 anni, fatto di piccoli tasselli. Abbiamo offerto a ciascuno la possibilità di esprimere il proprio punto di vista, di proporre un pezzo “innovativo”, di scegliere un prodotto con un ruolo importante nella storia del design oppure nella propria storia di progettista o di azienda». Come si riesca a creare un percorso fatto di tasselli soggettivi è per noi arduo da comprendere. E, anche qui, chi sono poi questi esperti selezionatori? Gli autori stessi dei prodotti, di aziende che vanno da 3M Italia a Tecno, da Herman Miller a Zumtobel. Per ognuno dei prodotti scelti è possibile accedere a una “scheda” che fornisce risposta alla domanda “Perché questo prodotto è un pezzo da museo?”, indicazione del “Main concept o Commento del designer che esprima la caratteristica innovativa del prodotto” e delle “Sintetiche caratteristiche del prodotto”. Tanto per rendere l’idea, per la sedia Chorus di Mascagni, disegnata da Lucci Orlandini nel 1996, la motivazione del perché dovrebbe stare in un museo è che «nonostante 11 anni di produzione il design di questa seduta si dimostra di essere ancora più che fresco fino ad essere, a tutt’oggi uno dei prodotti più copiati sia in Italia che e all’estero»; e, lasciando a ciascuno la possibilità di leggere per proprio conto le altre motivazioni, citiamo almeno il purificatore d’aria 3M, su progetto Pininfarina, del 2006, per il quale si arriva a un vero e proprio saggio in puro stile comunicato stampa: «questo prodotto nasce dalla lunga e proficua partnership tra 3M e Pininfarina, ove l’italian style si sposa con l’esperienza e le tecnologie di 3M, una sinergia tra due compagnie che da sempre eccellono nell’innovazione. Il purificatore d’Aria Ultrapiatto Filtrete è un pezzo di design assolutamente unico, un prodotto desiderabile, oltre che sempre più richiesto nei nostri inquinatissimi centri abitati che non fa fatica ad emergere nel mercato attuale. Dopo un’attenta analisi della concorrenza l’obiettivo era progettare un oggetto unico, di facile utilizzo e veramente riconoscibile. Alla luce del risultato si può dire che i propositi siano stati ampiamente soddisfatti dai risultati: quello che è nato è un prodotto assolutamente nuovo, curato in ogni minimo dettaglio, dalla forma sensuale che fa sì che il prodotto sembri quasi respirare». Ecc. ecc. ecc.Non si fraintenda, però. Che una rivista dedicata al mondo dell’ufficio voglia fare una proposta, una selezione di pezzi da mettere online, tanto per segnare i propri interessi e gusti, ci pare più che lecito…Ma – sono i precedenti ormai che si accumulano nella nostra mente – perché tutti, ultimamente, abbian voglia di fare musei che non sono musei ci resta oscuro, e c’infastidisce pure un poco.Musei senza collezioni, musei senza sedi, collezioni senza curatori, esposizioni senza criteri e percorsi, musei e reti virtuali senza corrispondenti reali, musei e mostre di oggetti senza oggetti…Guarda e passa.

Esposizioni e parole #3 + identità
Museo ferroviario di Trieste

ts_museoferroviario1Ancora parole. Parole vicino, sopra, intorno agli oggetti. Racconti, spiegazioni, visite guidate. Parole sotto, vicino, intorno alle immagini degli oggetti. Cartellini, targhe, didascalie.Poiché non c’è due senza tre, restiamo a Trieste ancora, e guardiamo al Museo ferroviario nella ex stazione di Campo Marzio. Si tratta di un museo “ferroviario”, appunto (non della scienza e della tecnica, né dei trasporti, né di treni solo come vagoni e locomotrici), quindi sviluppato attorno alla storia ferroviaria di Trieste, raccogliendo tutto quanto – dai vagoni ai macchinari, dai vestiti ai biglietti, dai timbri ai carrelli, dalle panche per le sale d’attesa ai pannelli di comando – di essa può conservare memoria. Una memoria ravvivata – in specie per i più piccoli – da modellini e diorami, fra i quali uno che riproduce il comprensorio di Villa Opicina nel 1910, in fase di manutenzione proprio durante la nostra visita a opera dei solerti artefici e volontari. Sì, perché come spesso avviene per simili musei in Italia specialmente (si vedano anche questo, questo, o questo), alle spalle di tanta affettuosa raccolta ed esposizione c’è un’associazione che include appassionati e, nel caso triestino, volontari in lotta con budget minimi o inesistenti. Ma sono questi i musei in cui si respira un senso di appartenenza forte, un clima conviviale, una disponibilità altrove – dove tante qualità sono stipendiate – piuttosto rara. Sono i musei nei quali l’eventuale difetto nel rigore dell’ordinamento e dell’esposizione è controbilanciato da tali qualità, e da una diretta, intima, conoscenza che gli “operatori” hanno di ciò che è esposto. Sono questi i musei in cui si percepisce il senso di una identità. Identità che la comunità tutta, locale, dovrebbe valorizzare e promuovere.Diamoci due, anzi tre riferimenti. Prendiamo il largo, come seguendo onde che si propaghino dopo il lancio del sasso nello stagno.Nel testo Museo, il cui anno di pubblicazione è il 1989 e che abbiamo già citato, Binni e Pinna individuavano, sintetizzando, la seguente evoluzione/trasformazione dell’istituzione “museo”: «Se dunque l’origine del museo è proprio da ricercarsi [… nella] funzione di accumulo o, se si preferisce, di recupero degli oggetti, e cioè nella necessità culturale di creare collezioni, analogamente la trasformazione del museo in senso cultural-scientifico prima, e in senso sociale poi, è passata attraverso i mutamenti del concetto stesso di collezione, cui la seconda metà del XVI secolo, e la filosofia di Bacone in particolare, tolse l’aspetto di curiosità e di svago a favore di un concetto scientifico più profondo. Proprio la trasformazione baconiana del senso della collezione, divenuta uno strumento indispensabile di ricerca scientifica, ha dato al museo finalità diverse dalla semplice conservazione, iniziando quella rivoluzione culturale che doveva inevitabilmente portare l’istituzione museale ad assumere una molteplicità di ruoli […]» (ivi, p. 85). Il ruolo sociale, o meglio l’apertura sociale, la “socializzazione” delle funzioni museale, si esprimeva allora, secondo gli autori, nella necessità di organizzare la funzione educativa (non originaria ma ormai necessaria) dei musei. Illuminavano in questo passaggio un momento di trasformazione, rischioso per alcune antiche istituzioni e però promettente migliorati destini per tante altre: «Il nuovo ruolo educativo porta alla riconsiderazione in senso sociale di tutte le funzioni del museo, da quella scientifica a quella conservativa che assume, quest’ultima, una potenzialità eccezionale. La funzione di conservazione muta così la sua stessa essenza, si apre all’esterno, non si limita più ai materiali che fra le mura del museo vengono conservati ma si allarga al territorio e alla città di cui il museo stesso diventa parte integrante […] nasce la vocazione del museo verso la tutela di tutto ciò che costituisce il patrimonio culturale di una comunità». Concludendo poi, per l’Italia, che proprio il «mancato consolidamento del ruolo sociale» era/è causa delle «incertezze culturali tipiche della museologia italiana» (ivi, p. 87).Se da allora tale compito sia stato in pieno assolto e risolto ci è difficile dirlo, per nostra ignoranza. Certo rimane che non sempre pare essere stato risolto – e per alcuni casi calati dall’alto neppure individuato – il nodo cruciale di quello che Binni e Pinna chiamano “messaggio culturale”, e che possiamo ben riferire all’identità. Scrivono (ivi, p. 92): «Ogni comunità ha caratteri propri che la individualizzano nel complesso delle altre comunità»; si tratta di una caratterizzazione che discende da fattori che determinano «quello che può definirsi l’ambiente culturale, uno status differente per ciascuna comunità e derivante in massima parte dal rapporto fra le comunità e derivante in massima parte dal rapporto fra la comunità e l’ambiente, quest’ultimo inteso non solo nella sua accezione geografica ma anche in quella più strettamente ecologica, comprensiva cioè dei rapporti fra comunità diverse», ma anche del fattore dinamico costituito dal passare del tempo, e delle conseguenti evoluzioni. Quindi una geografia che è vissuta, una società, e la sua storia, perché di questo si tratta.Identità, abbiamo detto. E allora riprendiamo un altro riferimento, da un intervento di Sergio Polano, Reti museali: atomi e bits, laddove parla dell’«identità dei luoghi» – ché il tema era appunto quello delle reti di musei, quindi di luogo/luoghi. Diceva: «[…] non è casuale, forse, che in questo momento ci si interroghi frequentemente su una supposta e non dimostrata identità dei luoghi. Soggetto di tali e tante indagini che sono state condotte con metodi e prospettive spesso divergenti, è la natura, l’intima complessione, la peculiare configurazione, l’interna definizione, la dotazione propria, l’identità di un luogo, cioè l’identità di una trasformazione antropica del paesaggio, delle forme diverse degli insediamenti umani […]»; ma che cosa è questa identità? «Identità è entità dinamica, cioè la capacità-qualità di essere e rimanere id, ovvero una determinata cosa, oggetto di conoscenza, non affatto “altra”. Pertanto, l’identità è un moto temporale, che sostanziando un quid, rende identico e consente l’identificazione». Una identità che è nella storia del luogo (e non un mitico genius loci), e che rimane nelle tracce materiali e sensibili, «tracce ambigue», «segni equivoci».Dunque spazio e tempo, geografia e storia, società e cultura.Nei fatti, vicino a queste considerazioni se ne collocherebbero altre che, di nuovo per ignoranza ma anche per non allontanarci troppo per ora, si riferirebbero, dagli anni ottanta a oggi, al boom dei beni culturali, ai sistemi e poi alle reti di musei, ai musei diffusi e agli ecomusei – dove “eco” ha il significato usato da Binni e Pinna per parlare di ambiente e territorio in termini di ecologia, ovvero habitat, come relazione fra uomo e territorio: «nicchia ecologica della specie uomo a confronto con la sua storiaı» (Valter Giuliano in Ecomusei e paesaggi. Esperienze, progetti e ricerche per la cultura materiale, Edizioni Lybra Immagine, Milano 2004).Aggiungiamo però il terzo riferimento che ci riporta agli anni più recenti; ovvero un convegno recente – Il Museo storico. Il lessico, le funzioni, il territorio – di cui abbiamo già detto, che, come altri esempi e non solo in Italia, restituisce l’immagine di un mondo in fervore, quello dei musei del nuovo millennio, ancora alle prese con l’identità, in duplice senso: l’identità del museo come istituzione, e poi le singole identità dei musei, i contenuti di cui si fanno portatori ed espressione. (E notiamo, en passant, che se è vero che si ha la convenzione di distinguere con “storico” un certo tipo di museo – come abbiamo anche visto fa pure l’Unesco – per quanto abbiamo riportato e con un poco di buon senso, non sono storici tutti i musei [quelli che si possono definire veramente tali]?.) Dunque, il senso duplice di identità; anzi, triplice e quadruplice senso, ché si aggiungono l’identità degli spazi, l’architettura e, da costruire con questa, l’exhibit design, e infine l’identità, che è coerenza, dell’immagine – quella che si chiama “coordinata”, ovvero identità visiva. Aspetto quest’ultimo tanto più rilevante dove – come ricordava Polano nel testo citato supra – si voglia fare sistema o costruire rete, su un territorio. Perché dalla frammentazione di diverse identità, dalla mancata integrazione, quella identità di territorio e società, di cultura, di cui si diceva, difficilmente potrà emergere agli occhi del visitatore; o, quel che è peggio forse, agli occhi della stessa comunità, che così perde se stessa.In quel convegno, Icom Italia (per inciso, l’ammodernato sito dell’associazione, che già indicavamo migliorabile, è se possibile peggiore e peggio funzionante del precedente, anche perché – difetto esiziale in rete – scarsamente aggiornato) si proponeva di mettere sul tavolo alcuni dilemmi e tensioni, costituiti da interrogativi, alternative o potenzialità, binomi fra i quali si trovano: comunità/territorio, comunità/collettività, nazionale/locale, locale/globale ecc.Perché se per Binni e Pinna, in quel finire degli anni ottanta, questione critica per i musei era farsi carico correttamente della funzione sociale ed educativa (che richiedeva anzi tutto il riconoscimento del proprio “messaggio culturale”), non è che poi le vicende museali si siano sciolte in placidi rivoli. A più riprese oggi si parla di crisi dei musei, o non si è mai smesso di farlo dal secolo scorso, e nel mezzo dovremmo almeno fare cenno agli anni dell’“economia della cultura” e del marketing nei musei, alle fraintese sovrapposizioni o commistioni di modelli nordamericani e realtà italiane, alla competizione, quasi, fra musei e parchi del divertimento, all’ingresso utilissimo ma pure l’eccesso di digitale e multimediale nei musei, all’altro fraintendimento, quello del virtuale rispetto al reale, e poi, come sempre, alle frammentate iniziative della politica più o meno locale. Quel che pare, tuttavia, è che se da un lato i musei non sono certo destinati a morire – e da più parti si precisa la capacità di trasformarsi e mutarsi di questo istituto, già testimoniata lungo i secoli –, dall’altro lato è ancora in corso, al di là delle individue esperienze, la riflessione su come si debba rinnovare questa ricca esistenza. Eppure non sembra che quel nodo che sopra si segnalava – identità – sia stato assunto pienamente.Riprendiamo ancora Polano che chiedeva «qual è il significato che ci è utile per trovare una prospettiva interpretativa, che ci conforti, nel tentare di costruire un modello coerente al nostro tempo». È evidente che se, sotto le mode e le correnti, dietro i filoni e le tendenze, ritornano le stesse domande, allora questo “significato utile” – che è senso, è direzione, prospettiva appunto – non è stato cercato/trovato. Vuol dire che tali domande, piuttosto che tornare, sono rimaste dove erano allorché si iniziò a porle, dunque inevase, o male interpretate, sempre ciascuno per conto proprio.Altrimenti, ad exemplum e per tornare da dove siamo partiti, molto banalmente, un museo come il Museo ferroviario di Trieste verserebbe in migliori condizioni, troverebbe altro sostegno nelle istituzioni, e non vedrebbe tagliati i suoi fondi.Ma con il Museo ferroviario di Trieste, Campo Marzio, volevamo parlare della parola, o dirne ancora qualcosa…Parole intorno agli oggetti. Non solo parola scritta ma pronunciata: racconti, spiegazioni, visite guidate. È soprattutto nei musei nati dall’associazionismo e dalla passione di privati cittadini che il racconto vivo si dispiega, incarnato, talora agito – come là dove alle parole segue una dimostrazione. Né teatro (come le esperienze illustrate da Graham Farmelo, Fare teatro al museo, in Scienza in pubblico. Musei e divulgazione del sapere, a cura di John Durant, Clueb, Bologna 1998, pp. 81 ss., dove venivano illuminati pregi e difetti di simili iniziative) né automatico spostarsi di orecchi appoggiati a scaldare audioguide. Piuttosto risuonano le voci, i commenti. I bambini chiedono di mettere in movimento i trenini. I responsabili dei musei attivano il diorama… In questi musei la narrazione parlata si fa necessaria, lo scambio domande/risposte sopperisce all’assenza o carenza di didascalie e cartellini, di pannelli esaustivi; il racconto si appoggia al proliferare di oggetti – più o meno accumulati o organizzati –, ne restituisce le vicende, li riordina e articola. Un ordinamento, una contestualizzazione temporanea.Non sono invero del tutto assenti le parole sotto, vicino, sopra agli oggetti, ai macchinari. Didascalie, spiegazioni specifiche – un modello di treno, un’applicazione tecnologica, una raccolta di strumenti –, cartellini, targhe, didascalie.ts_museoferroviario2E parole vicino, anzi sotto le immagini. Fotografie di altri tempi: stazioni, locomotrici, vagoni… Immagini per tracciare un percorso. Così per celebrare gli inizi di la ricca storia ferroviaria di Trieste – storia che si amplia necessariamente ben oltre vagoni e sale d’attesa e si collega alle gloriose vicende delle infrastrutture, con ponti, viadotti, tunnel e stazioni edificati in vari anni, per estendere e punteggiare direzioni politiche e commerciali, in guerra come in pace – è in corso quest’anno la mostra 1857-2007. 150 anni della prima ferrovia di Trieste. Una esposizione, organizzata appunto con immagini e didascalie, che si spera non venga smantellata, se mai migliorata e arricchita, perché aiuta a collocare, a contestualizzare, a dare un più profondo livello di lettura per tenere insieme e dare senso a tutto quanto raccolto ed esibito nel museo. È la storia della linea “Meridionale”, ovvero del collegamento fra la capitale dell’impero absburgico Vienna e Trieste, cioè il suo porto, passando per Graz e Lubiana. Realizzata fra il 1841 e il 1857 – con l’ingegnere Carlo Ghega (1802-1860; veneziano d’origine) direttore lavori dal 1845 – e dal 1858 già ceduta a una società privata, la Imperial-Regia Privilegiata Società della Ferrovia Meridionale (k.u.k. Privilegierte Südbahn Gesellschaft), che ne mantenne la gestione fino alla fine della prima guerra mondiale, dopo di che avvenne il passaggio alle FS, alle quali oggi rimane solo un tratto (Trieste-Villa Opicina) in seguito alla seconda guerra mondiale, e al nuovo confine italo-iugoslavo. Una storia ricca di costruzioni e progressi, esposta – anche qui – un po’ come nelle pagine di un libro, ma che si apprezza poi ulteriormente visitando le sale del museo, dove si trovano gli oggetti, le leve e i cambi, i copricapi e i biglietti, le penne e i timbri, i chiodi e le lanterne… Insomma tutti quei materiali – concreti, presenti, tangibili – che sono la sostanza di un museo. E che in questo caso parlano, sussurrano o possono essere fatti parlare, comunque non restano muti, e raccontano di un’opera imponente, di ingegneria e tecnologia, di uomini e macchine, ma pure di un orgoglio che, se certo non è dimenticato da chi lo prova, è però ignorato dai più, da noi che oggi saliamo su treni in ritardo, sporchi e maltrattati, pretesi ma trascurati dalla società e dallo stato (si veda su questi temi anche quel che scrive toneguzzi.it). Scopriamo non solo il “carrello italico”, dell’ingegner Zara, applicato dal 1904 per locomotive a vapore, al fine di migliorarne la circolabilità in curva, oppure la storia della locomotiva E.626 «base dei nostri locomotori elettrici» e primo avvio di unificazione FS per la progettazione di tali veicoli, dopo la metà degli anni venti, o ancora che sulla linea Meridionale si circolava a sinistra; scopriamo anche nelle vetrine oggetti che narrano di un altro tempo, come le bustine contenenti “miscela salino-vitaminica” confezionate appositamente per il servizio sanitario FS, oppure l’estratto d’inchiostro polvere nero copiativo, anch’esso fabbricato e confezionato ad hoc in “dose per un litro” per le FS dalla ditta Alces di Roma, mentre quello rosso, “dose per 1/5 di litro” era fornito da C. Moro, di Portici.ts_museoferroviario3E lungo l’Italia portano anche le tante targhe di costruzione delle locomotive, che si trovano appese alle pareti nelle sale del museo: Società anonima Officine Meccaniche (OM), Milano; Società per Costruzioni elettro meccaniche Saronno (CEMSA); Tecnomasio italiano, Brown Boveri Milano, officine di Vado Ligure; Compagnia Generale di Elettricità (GE), Milano; S.A. Costruzioni Ferroviarie e Meccaniche (SACFEM), Arezzo; Sezione materiale ferroviario FIAT; Società nazionale delle officine di Savigliano, Torino; Officine Moncenisio, già AN. Bauchiero, Torino, Condove; Officine meccaniche siciliane S. per A. (OMSSA), Palermo; Simmel Industrie meccaniche, Castelfranco Veneto ecc.Vengono in mente gli uomini, il lavoro, gli sforzi, l’impegno, il progresso della società. Si prova un vero moto d’orgoglio, in un paese che – come i comici si incaricano oggi di ricordare – ne ha perduto il senso, perché sta perdendo identità.I musei esistono anche per questo.E poiché non c’è due senza tre, chiudiamo ancora con Polano, che nel testo citato cita un filosofo americano: «il popolo che dimentica la sua storia, è costretto a ripeterla».

Design fra mito e storia

miti_oggiTemendo, per ignoranza, di sfidare il vero – insomma di errare – allorché ci accade di ritenere che per una migliore conoscenza e diffusione della cultura progettuale ci sia ancora lavoro da fare; che talune carenze, assenze o ripetizioni – dalla storiografia alla critica, fino ai musei o alle mostre temporanee – siano segnale di come il “design” (non) è inteso; che certe relazioni del design con altre discipline, laddove trattate con univocità e tentazioni d’assolutezza, contribuiscano a rendere profittevolmente – per alcuno – confusa e banalizzata l’idea (con la minuscola, s’intende) e la conoscenza della disciplina; e temendo, soprattutto, di confondere il paese con il mondo, abbiamo cominciato ad allungar lo sguardo attorno, ovvero a leggere un poco più di quel che s’è scritto altrove, in altre nazioni, quelle in cui – almeno per quanto presso di noi sembra – il design ha avuto una storia disciplinare precedente o meglio chiarita… Ora, non è che la nostra ignoranza sia sparita d’un tratto, anzi s’accresce (strana cosa, codesta). Ciò che però ci pare è che per questa ingorda bestia ci sia cibo da mangiare, in discreta quantità, a voler abbandonare la dieta mediterranea finora per lo più seguita. Torneremo, speriamo, a più riprese su queste pietanze – tedesche e britanniche, ma anche americane ecc. –, piatti preparati con metodo e ricchi di storia. E molto pertinenti per i temi di cui ci vogliamo occupare. Giacché i musei sono proprio «istituzioni che conservano la storia e la memoria della storia» (Giovanni Pinna) – laddove conservazione è di materiali collezioni e di immateriali contenuti, i quali sono, ormai dagli Annali, documenti, materia prima per gli storici, dunque per l’interpretazione di ciò che è stato, di quel che siamo e pure, in funzione critica, di quel che potremmo essere.Un’interpretazione, dunque, che non deve essere ripetizione di un canone né giustificazione lineare del presente… E così, per trasferirci allo specifico del design, ci si potrà accontentare, per la sua storia e per la sua narrazione esposta (musei, mostre), solo di una sequenza di nomi, successi, prodotti? Sarà sufficiente una successione di icone o classici, sempre già visti, gli stessi pezzi in libri e riviste, nei musei e pure in fiere e showroom? Question propriamente di storia.Prendiamo spunto da un doppio paper davvero interessante, quello di Clive Dilnot, The State of Design History, I: Mapping the Field e II: Problems and Possibilities [1984] (in Design Discourse, a cura di Victor Margolin, University of Chicago Press, Chicago 1989, pp. 213-250); in realtà sono molti gli spunti, ma per ora ci soffermiamo su uno di quelli che aprono il secondo dei due saggi.Riporta Dilnot che negli anni trenta del Novecento a Cambridge Ivor Armstrong Richards, con uno dei suoi esperimenti di critica letteraria, dimostrò che «the most highly trained students of English literature could be taught what the canon of literature consisted of, but they could not produce for themselves its implicit variations. These findings produced a minor crisis within the study of literature and led almost directly to the domination of criticism in literary studies». Sicché la letteratura cominciò a essere ridefinita in termini di “valore” e lo studio della letteratura a esser circoscritto a un numero ristretto di testi “canonici”, con tre conseguenze: la negazione o la non considerazione della scrittura, dell’atto del comporre; la rimozione della storia dei testi e dei processi storici secondo i quali il canone della letteratura inglese è “prodotto” e non già dato; la riduzione dei testi inclusi nel canone a una unica identità (nazionale).Prosegue Dilnot, a chiarire il perché di tal esempio: «True, the parallel with literary studies should not be taken too far. At present, there is no real discipline of design criticism, but a canonical list of “important” designs and designers is rapidly being established […]» – ricordiamo che il testo è del 1984, ma le conseguenze ci paiono piuttosto attuali – «Therefore, the history of design in this sense is approaching a recitation of such “important” works, with the consequences that the historical processes that gave rise to them are gradually disappearing. The values that the “important” works possess are increasingly being tacitly accepted as lying outside the realm of history». E aggiunge: «Most important, the whole process tends to obscure, rather than to illuminate, the design process. Thus, the second effect of failing to distinguish the “multiple content of design”, as Necdet Teymur put it, is the paradox of removing history and design from design history!». La rimozione della complessità, l’appiattimento e la riduzione del design in una tradizione lineare di pezzi importanti, in un concetto indistinto – il Design – equivale alla perdita della dimensione storica, all’impossibilità di comprendere e di conoscere.«In professional design practice and design education, and now possibly in design history, a mystique of design, an almost mythic and artificial set of largely esthetic values, is being created. In history this development has the very real possibility of turning the writing history into the writing of myth.»Sicché, parlando di miti, Dilnot non può che rimandare alla viva parola del Roland Barthes di Mythologies (e che noi citiamo dall’edizione italiana Miti d’oggi, Lerici, Milano 1966, p. 142 s.): «… il mito ha il compito di istituire un’intenzione storica come natura, una contingenza come eternità. […] Al mito il mondo fornisce un reale storico, definito, per lontano che si debba risalire nel tempo, dal modo in cui gli uomini lo hanno prodotto o utilizzato; e il mito restituisce un’immagine naturale di questo reale». Il mito «si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle cose: le cose vi perdono il ricordo della loro fabbricazione»; il mito sottrae «alle cose il loro senso umano», il «rapporto dialettico di attività» e le riduce a «un quadro armonioso di essenze», ovvero «abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze»; inoltre costruisce un mondo privo di contraddizioni «perché senza profondità, un mondo dispiegato nell’evidenza, istituisce una chiarezza felice: le cose sembrano significare da sole»; ma il mito «non nega le cose, la sua funzione, al contrario, è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione». Per cui, laddove si intenda politica «nel senso profondo, come insieme dei rapporti umani nella loro struttura reale, sociale, nel loro potere di fabbricazione del mondo», ne consegue che il mito – la cui funzione, in definitiva è di «svuotare il reale […] un deflusso incessante, un’emorragia […] un’evaporazione, insomma un’assenza sensibile» –, insomma il mito «è una parola depoliticizzata» (dando al de- «un valore attivo» perché «rappresenta in questo caso un movimento operativo, attualizza incessantemente una defezione»).Dilnot non riprende Barthes per esaminare o verificare se si sia raggiunta quella «conciliazione del reale e degli uomini, della descrizione e della spiegazione, dell’oggetto e del sapere» (ivi, p. 250) che il francese auspicava in conclusione. Piuttosto, come noi “usiamo” Dilnot, lo colloca nel suo ragionamento per segnalare come il mito abbia finito per l’operare anche nella storia del design, manifestandosi nella «reduction of its subject matter to an unproblematic, selfevident entity (Design) in a form that also reduces its historical specificity and variety to as near zero as possible».Dilnot scriveva nel 1984. Per richiamare un’altra delle pietanze straniere cui abbiamo fatto cenno supra, dobbiamo pensare che in quegli anni, quelli del cosiddetto Nuovo Design, si poteva peraltro assistere a esposizioni dal titolo I mobili espliciti di per se stessi (Wuppertal, 1985; cfr. Bernhard Bürdek, Design. Storia, teoria e prassi del disegno industriale, Mondadori, Milano 1992, p. 65); certo qui le implicazioni erano anche altre – e si dovrebbe rendere conto di tanto altro di quel periodo e di molto altro sul disegno industriale.Per ora, suggiamo a noi stessi che dovremo valutare come si sia formato l’insidioso appiattimento destoricizzante – per tramite di storiografia, teoria, critica e curatori (per tutti: o sedicenti tali) – e se i suoi effetti siano ancora presenti, in qual misura e con qual peso per la cultura del progetto e la cultura in genere. In questo è proprio la storia a venirci incontro, giacché «la mitologia può avere solo un fondamento storico, perché il mito è una parola scelta dalla storia: il mito non può sorgere dalla “natura” delle cose» (sempre Barthes, Miti d’oggi, cit., p. 204). Barhtes si proponeva di “demistificare” – non che noi si creda di poter esser come lui, ma almeno di tenerlo come faro per guardare e interpretare, ché l’universo dell’intenzionalità mitopoietica ci pare non attenuarsi: «Il punto di partenza […] era il più delle volte un senso di insofferenza davanti alla “naturalità” di cui incessantemente la stampa, l’arte, il senso comune, rivestono una realtà che per essere quella in cui viviamo non è meno perfettamente storica: in una parola soffrivo di vedere confuse ad ogni occasione, nel racconto della nostra attualità, Natura e Storia, e volevo ritrovare nell’esposizione decorativa di ciò-che-va-da-sé l’abuso ideologico che, a mio avviso, vi nasconde».

Raccogliere, ordinare, raccontare

zingari_oggettiQuesta immagine pubblicata ieri in “La Repubblica” (Fabrizio Ravelli, Craiova, nella terra degli zingari. “I lavavetri? Chi ruba ci rovina”, p. 13) mostra l’interno di una abitazione di zingari in Romania. Il tema dell’articolo in cui compariva è serio, ma noi ci soffermiamo qui solo sulla foto: scodelle ordinate su più file in un equilibrio che a noi sembra precario, alle pareti cestini e scolapasta di plastica di differenti cromie, e ancora vasetti appesi grazie al manico, ciotole e pentole di metallo, verso il fondo tazzine che si confondono con le decorazioni della parete (o della tenda)…Tanti oggetti d’uso disposti con ordine. Che cosa raccontano? Abitudini e costumi, status sociale, decoro ed etica, aspirazioni di una famiglia, di un gruppo. E il loro racconto, immediato e vivo, si dispiega proprio nell’uso che di essi viene fatto, nel loro disporsi all’intervento ordinatore di chi li possiede – che con essi non solo compie azioni quotidiane ma comunica se stesso.L’immagine ci fa venire in mente molte infilate di pezzi più o meno preziosi ormai sottratti all’uso e collocati in vari musei di arti decorative, di quelli che spesso non è possibile neppure fotografare – divieto che ci pare sempre meno comprensibile, in particolare in musei di arti applicate e decorative (recentemente abbiamo visitato quello di Padova dove, appunto, non è consentito scattare alcuna fotografia).musee_arts_decoratifs1Questa immagine l’abbiamo invece scattata al Musée des arts décoratifs di Parigi – dove per fortuna non c’è alcun divieto in merito, e si può inoltre agevolmente ritrovare gli oggetti esposti anche nel catalogo online del sito web.Una suggestiva serie di boccette, presse-papier, flaconi… sottoposti agli usi e consumi museali, ovvero a essere guardati nel complesso come una tavolozza di colori e di forme, oppure riguardati con ammirazione da visitatori per lo più accompagnati da audioguida individuale. Che cosa raccontano? È un racconto per nulla im-mediato, e ben poco “vivo”. Sia perché si tratta di artefatti lontani (nel tempo e nello spazio; e su simili distanze, sempre restando a Parigi, si pensi per esempio al Musée du Quai Branly), di cui a volte possiamo faticare a riconoscere e comprendere l’utilizzo e la fattura, sia perché nei musei il faticoso lavoro curatoriale che si colloca fra i termini della meraviglia e della risonanza, della sacralizzazione e della contestualizzazione, e oltre, si trova sovente a dover operare scelte, talora compromessi, al fine di giungere a offrire una forma di esposizione, racconto e comunicazione. Per cui, se spesso ci accade pure di pensare «Questa esposizione poteva o doveva essere fatta altrimenti», o di maturare fra noi qualche critica, alla fine dei conti riconosciamo sopra ogni dubbio, e con gioia, la fortuna che i musei ci siano, e che qualcuno ci provi a mostrare e raccontare – anziché tentennare lasciando le opere nei magazzini. Non per questo vogliamo ignorare il rilievo e la responsabilità che il ruolo del curatore possiede, anzi. Ma la fortuna è anche quella che ci sia ancora spazio per raccontare in maniera diversa, per costruire “altri” racconti, sia da parte dei curatori e degli studiosi, sia da parte dei visitatori stessi per i quali un’esposizione non condivisa o ritenuta carente potrà almeno fungere da stimolo: perché avrà veduto, e – esprimendoci al limite – non potrà ignorare l’esistenza di un oggetto prima sconosciuto al suo universo.Per tornare all’immagine, il racconto che la visione – e la ricezione con più sensi – di una tale esposizione di oggetti svolge si compone dunque di diversi livelli: quello che viene proposto al visitatore, in forme più o meno articolate (con didascalie, pannelli, audioguide ecc.), ma pure quello – che con un po’ di allenamento si può ricavare – relativo alle intenzioni dei curatori. Il racconto del racconto. Naturalmente i due racconti sono in qualche modo sovrapposti e coincidenti, ma si deve guardarli con occhi differenti e con differente disponibilità all’abbandono. Senza voler dire, si badi bene, che il museo è un testo o i curatori propriamente scrittori, l’opera che viene allestita nei musei ha e deve avere una consapevole valenza autoriale. Il visitatore non dovrebbe ignorarlo, e dovrebbe invece moltiplicare il proprio sguardo sulle esposizioni che visita.La mediazione che un curatore, un museo, opera sugli oggetti dovrebbe rendere conto di se stessa, spiegarsi, rendersi comprensibile. Raccogliere e ordinare oggetti in un museo è altra cosa dal mettere in ordine piatti e pentole in casa propria.

Museo di macchine Enrico Bernardi
Padova

«Sono sempre più persuaso che la presenza del museo può essere d’aiuto per lo studio delle discipline attuali. Durante le lezioni si insegnano le soluzioni date ai problemi, dimenticando spesso che alle loro spalle si trovano tempo, prove, errori… trasferire la conoscenza tout court significa rischiare di banalizzarla. Al contrario, documentare, osservare da vicino, provare rende conto delle difficoltà insite nella ricerca tecnica e scientifica; è insieme strumento di studio e di riflessione sulla storia della ricerca. È anche importante per sollecitare i giovani studenti e studiosi a non arrendersi alle difficoltà, avendo chiaro l’esempio dei grandi maestri.» Così si è espresso il professor Guido Ardizzon, responsabile scientifico del Museo di macchine “Enrico Bernardi”, che si compone delle realizzazioni di un “pioniere italiano dell’automobilismo” (1841-1919), raccolte in una sala del Dipartimento di Ingegneria meccanica dell’Università di Padova.Istituito nel 1941 presso l’Istituto di macchine dell’ateneo patavino, il museo è stato trasferito nella sede attuale nel 1974, e conserva, oltre a disegni originali di Bernardi, foto d’epoca, articoli di giornali e documenti vari, diversi motori. Per esempio alcune versioni del famoso monocilindrico a benzina (1882-84), piccolo e perciò utilissimo per le necessità delle piccole aziende venete, e che Bernardi chiamò “Pia”, dal nome della figlia, peraltro ritratta in una foto mentre usa il motore applicato a una macchina per cucire; un motore per il quale Bernardi chiese nel 1882 la privativa industriale alla Prefettura industriale. Oppure il più grande “Lauro” (1887-89), che porta il nome del figlio di Bernardi, pensato per applicazioni industriali.Come spiega Giuseppe Ventrone – già responsabile del museo – nel suo articolo Il Museo di Macchine “Enrico Bernardi”, pp. 131-132, in simili motori «l’innalzamento della temperatura effettuato dalla combustione, che veniva innescata quando la miscela-combustibile-aria aspirata era inizialmente in condizioni di pressione e temperatura pressoché uguali a quelle atmosferiche, era alquanto modesto, e piccolo risultava pertanto il rendimento termico». Fu solo quando ebbe compreso l’importanza della fase di compressione della carica prima della combustione, come proposta nel ciclo a quattro tempi dal francese Beau de Rochas (1862), e quando fu scaduta un’altra privativa – quella di N.A. Otto per un motore orizzontale a gas a quattro tempi –, che Bernardi «intraprese lo studio di un motore a quattro tempi nel 1886», sviluppando diversi prototipi e modelli.bernardi_biciDel 1893 è il motore a benzina da 1/3 di CV e 187 giri al minuto che si vede montato sul triciclo a tre ruote in linea, una sorta di scooter.Dal 1894, poi, Bernardi iniziò a progettare motori più potenti, per automobili (fra l’altro non mancarono i contatti con Giovanni Agnelli…), partecipando poi alla realizzazione della famosa “vetturetta” (si veda il filmato) o vettura a tre ruote, con un motore a benzina da 1,5-5,2 cavalli e 430-800 giri al minuto. La descrive bene il già citato Ventrone: «Il motore è collocato dietro il sedile, con l’albero in direzione trasversale che comanda la ruota motrice posteriore mediante le ruote dentate del cambio e una catena articolata. La trasmissione comprende oltre al cambio di velocità a treni scorrevoli, un innesto a corda sull’albero primario azionato a mezzo di una frizione conica, e un freno a corda posto sull’albero secondario. La ruota posteriore è frenata da un freno a ceppo. La vettura, che percorse 60.000 km, poteva raggiungere una velocità di 35 km/h». E, una delle pochissime rimaste, è l’unica ancora funzionante, proprio grazie all’impegno del Dipartimento che la ospita.museo_macchineNe abbiamo potuto avere prova, nei laboratori del piano terra del Dipartimento, che infatti si giova per l’insegnamento non solo del Museo ma di ampi spazi per ricerca e sperimentazione, oltre che di una collezione di macchine più “recenti”, pezzi di motore, componenti e dispositivi vari che vengono utilizzati a supporto dell’attività didattica e a scopo dimostrativo. Questa raccolta si trova in uno spazio realizzato ad hoc, un involucro trasparente che può essere ammirato dalle aule circostanti e dai piani superiori: un modo interessante per tenere in relazione teoria e applicazione.Ma, ci confessava il professor Ardizzon, sarebbe suo intento integrare anche il Museo di macchine Bernardi all’interno dell’insegnamento; certo non per i corsi specialistici, ma per i corsi di base e propedeutici, quelli in cui delle discipline è importante apprendere altresì la storia, quindi rivitalizzando il museo stesso e rendendolo fonte viva degli studi che nell’ateneo si conducono. Questo progetto dovrebbe avere avvio con l’anno accademico 2007/08.Museo di macchine Enrico BernardiUniversità degli studi di PadovaDipartimento di Ingegneria Meccanicaviale Venezia 135131 Padovawww.musei.unipd.it/macchine/index.html