Ancora parole. Parole vicino, sopra, intorno agli oggetti. Racconti, spiegazioni, visite guidate. Parole sotto, vicino, intorno alle immagini degli oggetti. Cartellini, targhe, didascalie.Poiché non c’è due senza tre, restiamo a Trieste ancora, e guardiamo al Museo ferroviario nella ex stazione di Campo Marzio. Si tratta di un museo “ferroviario”, appunto (non della scienza e della tecnica, né dei trasporti, né di treni solo come vagoni e locomotrici), quindi sviluppato attorno alla storia ferroviaria di Trieste, raccogliendo tutto quanto – dai vagoni ai macchinari, dai vestiti ai biglietti, dai timbri ai carrelli, dalle panche per le sale d’attesa ai pannelli di comando – di essa può conservare memoria. Una memoria ravvivata – in specie per i più piccoli – da modellini e diorami, fra i quali uno che riproduce il comprensorio di Villa Opicina nel 1910, in fase di manutenzione proprio durante la nostra visita a opera dei solerti artefici e volontari. Sì, perché come spesso avviene per simili musei in Italia specialmente (si vedano anche questo, questo, o questo), alle spalle di tanta affettuosa raccolta ed esposizione c’è un’associazione che include appassionati e, nel caso triestino, volontari in lotta con budget minimi o inesistenti. Ma sono questi i musei in cui si respira un senso di appartenenza forte, un clima conviviale, una disponibilità altrove – dove tante qualità sono stipendiate – piuttosto rara. Sono i musei nei quali l’eventuale difetto nel rigore dell’ordinamento e dell’esposizione è controbilanciato da tali qualità, e da una diretta, intima, conoscenza che gli “operatori” hanno di ciò che è esposto. Sono questi i musei in cui si percepisce il senso di una identità. Identità che la comunità tutta, locale, dovrebbe valorizzare e promuovere.Diamoci due, anzi tre riferimenti. Prendiamo il largo, come seguendo onde che si propaghino dopo il lancio del sasso nello stagno.Nel testo Museo, il cui anno di pubblicazione è il 1989 e che abbiamo già citato, Binni e Pinna individuavano, sintetizzando, la seguente evoluzione/trasformazione dell’istituzione “museo”: «Se dunque l’origine del museo è proprio da ricercarsi [… nella] funzione di accumulo o, se si preferisce, di recupero degli oggetti, e cioè nella necessità culturale di creare collezioni, analogamente la trasformazione del museo in senso cultural-scientifico prima, e in senso sociale poi, è passata attraverso i mutamenti del concetto stesso di collezione, cui la seconda metà del XVI secolo, e la filosofia di Bacone in particolare, tolse l’aspetto di curiosità e di svago a favore di un concetto scientifico più profondo. Proprio la trasformazione baconiana del senso della collezione, divenuta uno strumento indispensabile di ricerca scientifica, ha dato al museo finalità diverse dalla semplice conservazione, iniziando quella rivoluzione culturale che doveva inevitabilmente portare l’istituzione museale ad assumere una molteplicità di ruoli […]» (ivi, p. 85). Il ruolo sociale, o meglio l’apertura sociale, la “socializzazione” delle funzioni museale, si esprimeva allora, secondo gli autori, nella necessità di organizzare la funzione educativa (non originaria ma ormai necessaria) dei musei. Illuminavano in questo passaggio un momento di trasformazione, rischioso per alcune antiche istituzioni e però promettente migliorati destini per tante altre: «Il nuovo ruolo educativo porta alla riconsiderazione in senso sociale di tutte le funzioni del museo, da quella scientifica a quella conservativa che assume, quest’ultima, una potenzialità eccezionale. La funzione di conservazione muta così la sua stessa essenza, si apre all’esterno, non si limita più ai materiali che fra le mura del museo vengono conservati ma si allarga al territorio e alla città di cui il museo stesso diventa parte integrante […] nasce la vocazione del museo verso la tutela di tutto ciò che costituisce il patrimonio culturale di una comunità». Concludendo poi, per l’Italia, che proprio il «mancato consolidamento del ruolo sociale» era/è causa delle «incertezze culturali tipiche della museologia italiana» (ivi, p. 87).Se da allora tale compito sia stato in pieno assolto e risolto ci è difficile dirlo, per nostra ignoranza. Certo rimane che non sempre pare essere stato risolto – e per alcuni casi calati dall’alto neppure individuato – il nodo cruciale di quello che Binni e Pinna chiamano “messaggio culturale”, e che possiamo ben riferire all’identità. Scrivono (ivi, p. 92): «Ogni comunità ha caratteri propri che la individualizzano nel complesso delle altre comunità»; si tratta di una caratterizzazione che discende da fattori che determinano «quello che può definirsi l’ambiente culturale, uno status differente per ciascuna comunità e derivante in massima parte dal rapporto fra le comunità e derivante in massima parte dal rapporto fra la comunità e l’ambiente, quest’ultimo inteso non solo nella sua accezione geografica ma anche in quella più strettamente ecologica, comprensiva cioè dei rapporti fra comunità diverse», ma anche del fattore dinamico costituito dal passare del tempo, e delle conseguenti evoluzioni. Quindi una geografia che è vissuta, una società, e la sua storia, perché di questo si tratta.Identità, abbiamo detto. E allora riprendiamo un altro riferimento, da un intervento di Sergio Polano, Reti museali: atomi e bits, laddove parla dell’«identità dei luoghi» – ché il tema era appunto quello delle reti di musei, quindi di luogo/luoghi. Diceva: «[…] non è casuale, forse, che in questo momento ci si interroghi frequentemente su una supposta e non dimostrata identità dei luoghi. Soggetto di tali e tante indagini che sono state condotte con metodi e prospettive spesso divergenti, è la natura, l’intima complessione, la peculiare configurazione, l’interna definizione, la dotazione propria, l’identità di un luogo, cioè l’identità di una trasformazione antropica del paesaggio, delle forme diverse degli insediamenti umani […]»; ma che cosa è questa identità? «Identità è entità dinamica, cioè la capacità-qualità di essere e rimanere id, ovvero una determinata cosa, oggetto di conoscenza, non affatto “altra”. Pertanto, l’identità è un moto temporale, che sostanziando un quid, rende identico e consente l’identificazione». Una identità che è nella storia del luogo (e non un mitico genius loci), e che rimane nelle tracce materiali e sensibili, «tracce ambigue», «segni equivoci».Dunque spazio e tempo, geografia e storia, società e cultura.Nei fatti, vicino a queste considerazioni se ne collocherebbero altre che, di nuovo per ignoranza ma anche per non allontanarci troppo per ora, si riferirebbero, dagli anni ottanta a oggi, al boom dei beni culturali, ai sistemi e poi alle reti di musei, ai musei diffusi e agli ecomusei – dove “eco” ha il significato usato da Binni e Pinna per parlare di ambiente e territorio in termini di ecologia, ovvero habitat, come relazione fra uomo e territorio: «nicchia ecologica della specie uomo a confronto con la sua storiaı» (Valter Giuliano in Ecomusei e paesaggi. Esperienze, progetti e ricerche per la cultura materiale, Edizioni Lybra Immagine, Milano 2004).Aggiungiamo però il terzo riferimento che ci riporta agli anni più recenti; ovvero un convegno recente – Il Museo storico. Il lessico, le funzioni, il territorio – di cui abbiamo già detto, che, come altri esempi e non solo in Italia, restituisce l’immagine di un mondo in fervore, quello dei musei del nuovo millennio, ancora alle prese con l’identità, in duplice senso: l’identità del museo come istituzione, e poi le singole identità dei musei, i contenuti di cui si fanno portatori ed espressione. (E notiamo, en passant, che se è vero che si ha la convenzione di distinguere con “storico” un certo tipo di museo – come abbiamo anche visto fa pure l’Unesco – per quanto abbiamo riportato e con un poco di buon senso, non sono storici tutti i musei [quelli che si possono definire veramente tali]?.) Dunque, il senso duplice di identità; anzi, triplice e quadruplice senso, ché si aggiungono l’identità degli spazi, l’architettura e, da costruire con questa, l’exhibit design, e infine l’identità, che è coerenza, dell’immagine – quella che si chiama “coordinata”, ovvero identità visiva. Aspetto quest’ultimo tanto più rilevante dove – come ricordava Polano nel testo citato supra – si voglia fare sistema o costruire rete, su un territorio. Perché dalla frammentazione di diverse identità, dalla mancata integrazione, quella identità di territorio e società, di cultura, di cui si diceva, difficilmente potrà emergere agli occhi del visitatore; o, quel che è peggio forse, agli occhi della stessa comunità, che così perde se stessa.In quel convegno, Icom Italia (per inciso, l’ammodernato sito dell’associazione, che già indicavamo migliorabile, è se possibile peggiore e peggio funzionante del precedente, anche perché – difetto esiziale in rete – scarsamente aggiornato) si proponeva di mettere sul tavolo alcuni dilemmi e tensioni, costituiti da interrogativi, alternative o potenzialità, binomi fra i quali si trovano: comunità/territorio, comunità/collettività, nazionale/locale, locale/globale ecc.Perché se per Binni e Pinna, in quel finire degli anni ottanta, questione critica per i musei era farsi carico correttamente della funzione sociale ed educativa (che richiedeva anzi tutto il riconoscimento del proprio “messaggio culturale”), non è che poi le vicende museali si siano sciolte in placidi rivoli. A più riprese oggi si parla di crisi dei musei, o non si è mai smesso di farlo dal secolo scorso, e nel mezzo dovremmo almeno fare cenno agli anni dell’“economia della cultura” e del marketing nei musei, alle fraintese sovrapposizioni o commistioni di modelli nordamericani e realtà italiane, alla competizione, quasi, fra musei e parchi del divertimento, all’ingresso utilissimo ma pure l’eccesso di digitale e multimediale nei musei, all’altro fraintendimento, quello del virtuale rispetto al reale, e poi, come sempre, alle frammentate iniziative della politica più o meno locale. Quel che pare, tuttavia, è che se da un lato i musei non sono certo destinati a morire – e da più parti si precisa la capacità di trasformarsi e mutarsi di questo istituto, già testimoniata lungo i secoli –, dall’altro lato è ancora in corso, al di là delle individue esperienze, la riflessione su come si debba rinnovare questa ricca esistenza. Eppure non sembra che quel nodo che sopra si segnalava – identità – sia stato assunto pienamente.Riprendiamo ancora Polano che chiedeva «qual è il significato che ci è utile per trovare una prospettiva interpretativa, che ci conforti, nel tentare di costruire un modello coerente al nostro tempo». È evidente che se, sotto le mode e le correnti, dietro i filoni e le tendenze, ritornano le stesse domande, allora questo “significato utile” – che è senso, è direzione, prospettiva appunto – non è stato cercato/trovato. Vuol dire che tali domande, piuttosto che tornare, sono rimaste dove erano allorché si iniziò a porle, dunque inevase, o male interpretate, sempre ciascuno per conto proprio.Altrimenti, ad exemplum e per tornare da dove siamo partiti, molto banalmente, un museo come il Museo ferroviario di Trieste verserebbe in migliori condizioni, troverebbe altro sostegno nelle istituzioni, e non vedrebbe tagliati i suoi fondi.Ma con il Museo ferroviario di Trieste, Campo Marzio, volevamo parlare della parola, o dirne ancora qualcosa…Parole intorno agli oggetti. Non solo parola scritta ma pronunciata: racconti, spiegazioni, visite guidate. È soprattutto nei musei nati dall’associazionismo e dalla passione di privati cittadini che il racconto vivo si dispiega, incarnato, talora agito – come là dove alle parole segue una dimostrazione. Né teatro (come le esperienze illustrate da Graham Farmelo, Fare teatro al museo, in Scienza in pubblico. Musei e divulgazione del sapere, a cura di John Durant, Clueb, Bologna 1998, pp. 81 ss., dove venivano illuminati pregi e difetti di simili iniziative) né automatico spostarsi di orecchi appoggiati a scaldare audioguide. Piuttosto risuonano le voci, i commenti. I bambini chiedono di mettere in movimento i trenini. I responsabili dei musei attivano il diorama… In questi musei la narrazione parlata si fa necessaria, lo scambio domande/risposte sopperisce all’assenza o carenza di didascalie e cartellini, di pannelli esaustivi; il racconto si appoggia al proliferare di oggetti – più o meno accumulati o organizzati –, ne restituisce le vicende, li riordina e articola. Un ordinamento, una contestualizzazione temporanea.Non sono invero del tutto assenti le parole sotto, vicino, sopra agli oggetti, ai macchinari. Didascalie, spiegazioni specifiche – un modello di treno, un’applicazione tecnologica, una raccolta di strumenti –, cartellini, targhe, didascalie.
E parole vicino, anzi sotto le immagini. Fotografie di altri tempi: stazioni, locomotrici, vagoni… Immagini per tracciare un percorso. Così per celebrare gli inizi di la ricca storia ferroviaria di Trieste – storia che si amplia necessariamente ben oltre vagoni e sale d’attesa e si collega alle gloriose vicende delle infrastrutture, con ponti, viadotti, tunnel e stazioni edificati in vari anni, per estendere e punteggiare direzioni politiche e commerciali, in guerra come in pace – è in corso quest’anno la mostra 1857-2007. 150 anni della prima ferrovia di Trieste. Una esposizione, organizzata appunto con immagini e didascalie, che si spera non venga smantellata, se mai migliorata e arricchita, perché aiuta a collocare, a contestualizzare, a dare un più profondo livello di lettura per tenere insieme e dare senso a tutto quanto raccolto ed esibito nel museo. È la storia della linea “Meridionale”, ovvero del collegamento fra la capitale dell’impero absburgico Vienna e Trieste, cioè il suo porto, passando per Graz e Lubiana. Realizzata fra il 1841 e il 1857 – con l’ingegnere Carlo Ghega (1802-1860; veneziano d’origine) direttore lavori dal 1845 – e dal 1858 già ceduta a una società privata, la Imperial-Regia Privilegiata Società della Ferrovia Meridionale (k.u.k. Privilegierte Südbahn Gesellschaft), che ne mantenne la gestione fino alla fine della prima guerra mondiale, dopo di che avvenne il passaggio alle FS, alle quali oggi rimane solo un tratto (Trieste-Villa Opicina) in seguito alla seconda guerra mondiale, e al nuovo confine italo-iugoslavo. Una storia ricca di costruzioni e progressi, esposta – anche qui – un po’ come nelle pagine di un libro, ma che si apprezza poi ulteriormente visitando le sale del museo, dove si trovano gli oggetti, le leve e i cambi, i copricapi e i biglietti, le penne e i timbri, i chiodi e le lanterne… Insomma tutti quei materiali – concreti, presenti, tangibili – che sono la sostanza di un museo. E che in questo caso parlano, sussurrano o possono essere fatti parlare, comunque non restano muti, e raccontano di un’opera imponente, di ingegneria e tecnologia, di uomini e macchine, ma pure di un orgoglio che, se certo non è dimenticato da chi lo prova, è però ignorato dai più, da noi che oggi saliamo su treni in ritardo, sporchi e maltrattati, pretesi ma trascurati dalla società e dallo stato (si veda su questi temi anche quel che scrive toneguzzi.it). Scopriamo non solo il “carrello italico”, dell’ingegner Zara, applicato dal 1904 per locomotive a vapore, al fine di migliorarne la circolabilità in curva, oppure la storia della locomotiva E.626 «base dei nostri locomotori elettrici» e primo avvio di unificazione FS per la progettazione di tali veicoli, dopo la metà degli anni venti, o ancora che sulla linea Meridionale si circolava a sinistra; scopriamo anche nelle vetrine oggetti che narrano di un altro tempo, come le bustine contenenti “miscela salino-vitaminica” confezionate appositamente per il servizio sanitario FS, oppure l’estratto d’inchiostro polvere nero copiativo, anch’esso fabbricato e confezionato ad hoc in “dose per un litro” per le FS dalla ditta Alces di Roma, mentre quello rosso, “dose per 1/5 di litro” era fornito da C. Moro, di Portici.
E lungo l’Italia portano anche le tante targhe di costruzione delle locomotive, che si trovano appese alle pareti nelle sale del museo: Società anonima Officine Meccaniche (OM), Milano; Società per Costruzioni elettro meccaniche Saronno (CEMSA); Tecnomasio italiano, Brown Boveri Milano, officine di Vado Ligure; Compagnia Generale di Elettricità (GE), Milano; S.A. Costruzioni Ferroviarie e Meccaniche (SACFEM), Arezzo; Sezione materiale ferroviario FIAT; Società nazionale delle officine di Savigliano, Torino; Officine Moncenisio, già AN. Bauchiero, Torino, Condove; Officine meccaniche siciliane S. per A. (OMSSA), Palermo; Simmel Industrie meccaniche, Castelfranco Veneto ecc.Vengono in mente gli uomini, il lavoro, gli sforzi, l’impegno, il progresso della società. Si prova un vero moto d’orgoglio, in un paese che – come i comici si incaricano oggi di ricordare – ne ha perduto il senso, perché sta perdendo identità.I musei esistono anche per questo.E poiché non c’è due senza tre, chiudiamo ancora con Polano, che nel testo citato cita un filosofo americano: «il popolo che dimentica la sua storia, è costretto a ripeterla».