A for Art | F for Fake | D for Design


«There really is no such thing as Art. There are only artists. Once these were men who took coloured earth and roughed out the forms of a bison on the wall of a cave; today some buy their paints, and design posters for hoardings; they did and do many other things. There is no harm in calling all these activities art as long as we keep in mind that such a word may mean very different things in different times and places, and as long as we realize that Art with a capital A has no existence.»
Ernst H. Gombrich, The Story of Art, 1950 (XVI ed., Phaidon, London 2006, p. 21)

a: “You’re a painter, why do you want people to do fakes”
b: “Because the fakes are as good as the legal ones, and there’s a market, there’s a demand”
c: “If you didn’t have an art market then fakers could not exist”
b: “So! More is the better!”
Orson Welles, F for Fake, 1976

«Benché riprodotta da migliaia o milioni di esemplari, ogni forma rimane un prototipo, e ha in sé tutte le qualità del modello. […] ogni oggetto è sempre un unicum, e la produzione in serie non è se non una tiratura illimitata. La tesi del design potrebbe essere così enunciata: a qualità assoluta corrisponde quantità illimitata, cioè illimitata circolazione e divulgazione o possibilità della circolazione e divulgazione dell’oggetto nella sfera sociale.»
Giulio Carlo Argan, in La memoria e il futuro. I Congresso Internazionale dell’Industrial Design, Triennale di Milano, 1954 (ed. Skira, Milano 2001, p. 20)

Osaka 2008, Design Museum:
Another Art Museum or a New Museum?
Ci stiamo pensando

osaka_2008Più che un post, questo è un post-it. La 6th International Conference on Design History and Design Studies, che si terrà a Osaka nel 2008 sotto il titolo Another Name for Design: Words for Creation, propone fra i temi da affrontare anche il seguente: Design Museum: Another Art Museum or a New Museum. Come si può immaginare questa è proprio materia per la nostra riflessione, e ci stiamo pensando…

Design, arte, artigianato #1
La teoria è una cosa, la realtà è un’altra

mari_artigianatoVerrebbe da pensare a fortuite coincidenze, se non fosse che evidentemente ce le andiamo proprio a cercare. Sì, perché due giorni fa, oltre al già citato numero di “Ottagono” abbiamo acquistato anche un altro numero della rivista, anno 16, 1981, n. 62, settembre, per via di un articolo di Enzo Frateili su Funzionalismo e antifunzionalismo nel disegno industriale. Una vicenda di alternanze e compresenze (ivi, pp. 54-61), intravisto sfogliando le pagine. Riprendendo in mano la rivista – dopo aver scritto il precedente post sulle tavole di Enzo Mari – ecco che quest’ultimo torna alla nostra attenzione, via la recensione che Giovanni Klaus Koenig fece di una sua “mostra didattica”: Dov’è l’artigiano? (ivi, pp. 116-121; ma l’articolo, senza immagini però, si ritrova anche nella raccolta Il design è un pipistrello mezzo topo mezzo uccello. Storia e teoria del design, Ponte alle Grazie, Firenze 1995, pp. 44-48). Se non bastasse Mari per farci pensare alla “coincidenza”, c’è il fatto che in questo periodo stiamo cercando di tornare proprio sul tema dei rapporti fra design, arte e artigianato. La vexata quaestio che portò Mari ad allontanarsi da ADI e spostarsi in quel di Firenze dove curò la mostra di cui s’è detto, secondo quanto riferisce Koenig. Infatti fin dal I congresso internazionale sull’industrial design (X Treinnale 1954) grandi sforzi teorici furon fatti in Italia per porre «le basi teoriche, ponendone [del disegno industriale] le basi teoriche col tracciamento del confine che separa questa categoria dall’artigianato tradizionale». Prosegue Koenig: «Il design, rivolto alla creazione di oggetti di serie, identici al prototipo, annullava il valore dell’opera d’arte in quanto unicum, in cambio della moltiplicata possibilità di comunicazione dei valori che l’oggetto significava. Tutta l’opera dei teorici del design, da Argan a Dorfles, da Rosselli a Fossati, da Frateili a Spadolini, era rivolta ad indagare con scrupolo l’andamento del confine fra design e artigianato: confine quanto mai sinuoso perché variabile per ogni categoria di oggetti. Per una nave, cinque esemplari eguali rappresentano già una grande serie, mentre per un’automobile questa cifra va moltiplicata almeno per cento. Come sempre, la teoria è una bella cosa, ma la realtà è un’altra». Già, perché le costrizioni autoimposte dagli sforzi teorici – ovvero l’assunto industrial design = oggetto progettato da un designer e realizzato in una fabbrica – hanno costretto a chiudere gli occhi e vedere solo quello che ad esse corrispondeva. Così, da un lato si faceva finta di non sapere – scrive Koenig – che parte dei mobili italiani era costruita artigianalmente; si faceva finta di non saperlo «pur di non perdere il titolo nobiliare di oggetto di industrial design». Mentre dall’altro lato c’erano botteghe artigiane che avevano acquistato macchinari per la produzione ma che «si guardavano bene dal pubblicizzare questo sistema di produzione industriale per non perdere l’altrettanto prestigioso titolo di oggetto fatto a mano. In altre parole, la distinzione fra design ed artigianato passava per l’esame delle qualità estetiche del prodotto, per la Kunstwollen del progettista; e non attraverso l’esame dei processi di produzione». Tutti più o meno consenzienti «pro bono pacis», sia l’ADI per il versante del design sia le organizzazioni artigiane per l’altro. Pochi tentavano di muoversi contro questo stato. Fra questi proprio Enzo Mari, che sondò il terreno di mezzo: «Di fronte all’uscio sbarrato di certe industrie, più presuntuose che intelligenti, occorreva trovare un pulpito diverso per fare la stessa predica di sempre, che era quella di invitare ad analizzare, oggetto per oggetto, il processo creativo attraverso il quale si realizza ogni modello». L’occasione venne dalla Regione Toscana, allorché decise di istituire una commissione per migliorare le condizioni dell’artigianato, in funzione della Mostra-Mercato dell’Artigianato di Firenze.Mari, insieme con Elisabetta Fermani, curò una mostra per indagare appunto «”dov’è l’artigiano”, ossia dove ideazione e realizzazione ancora coincidono».Sotto una cupola geodetica, un anello – al cui centro si trovava una cavea per le discussioni – ospitava allora differenti artefatti, organizzati per illustrare «una griglia teorica che è impossibile riassumere in poche parole, e che è più facile mostrare attraverso alcuni esempi-flash».Innanzi tutto i prototipi realizzati da artigiani per l’industria: dalle lamiere (allora) battute a mano per l’Italdesign di Giugiaro e Mantovani al master realizzato da una bottega artigiana per Alfa Romeo «ché è l’indispensabile riscontro per controllare l’esattezza delle presse che stampano i pezzi delle carrozzerie»; e ancora i modelli ingranditi dei circuiti integrati o le turbine in scala per prove e test. C’erano poi “capolavori tecnologici” – come i sommergibili americani – realizzati dall’industria ma con tecniche che richiamano da presso le lavorazioni artigianali. Seguivano inoltre gli «oggetti “per pochi”», come per esempio «il prototipo del cappello che Borsalino modella per ogni Papa. Pezzo unico, per definizione, visto che gli antipapi non usano più [sic] da vari secoli». Infine, l’«oggetto più bello di questa mostra: una scultura in acciaio e rame di Paolo Gallerani. A vederla sembrerebbe una macchina utensile, tanto gli stilemi dei pezzi che la compongono sono simili a quelli delle macchine», se non che «gli specialisti, che la osservano, si grattano la testa, perplessi, perché dopo un quarto d’ora non capiscono come funzioni né tantomeno a cosa serva. Infatti, la pseudo-macchina di Gallerani non serve a nulla: è una macchina celibe, deprivata di ogni funzione». Come scrive Koenig, ormai nella seconda era della meccanizzazione – allora in corso – compito dell’artista era la rappresentazione del nuovo feticcio, non più l’oggetto di serie ma la macchina che lo produce.Ora, è ben vero che tempi e tecnologie sono mutati, ma innanzi tutto gli esempi portati da Mari rimangono ugualmente validi per la teoria e la storia del design. In secondo luogo, non si può non notare negli anni recenti un ricorso piuttosto frequente al contributo artigianale, come valore aggiunto di certe produzioni di design: lavorazioni, finiture, decorazioni ecc. Anzi, in nome anche di una sorta di tutela e valorizzazione di competenze tradizionali locali, si sente sempre più spesso parlare di iniziative di riorganizzazione delle filiere produttive in cui designer e artigiani lavorano insieme per produzioni di speciale qualità (alcuni fra i casi recenti, senza discutere in questa sede sul valore: Terre Blu nel Casertano, Biosfera, in Veneto, e il LP_Laboratorio permanente / designOrientity in Sicilia). E sul versante della conservazione e tutela, si ricordino progetti come Il sistema museale regionale del design e delle arti applicate. Un progetto per lo sviluppo locale in Campania (si veda il volume a cura di Claudio Gambardella, Alinea Editrice, Firenze 2005).Aggiungiamo per ora un altro riferimento sul tema. A proposito della nobiltà o aura distintiva del design italiano, e della sua “difesa”, e in merito a certe insistite cecità della teoria e, con essa, della storiografia italiana del design, ci sembra interessante richiamare anche quanto ha scritto Manolo De Giorgi in un saggio non a caso intitolato, Oggetti in prospettiva archeologica, in 45-63. Un museo del disegno industriale in Italia, Abitare Segesta, Milano 1995, pp. 12-23, dove dopo aver notato lo scarso riscontro che in tale storiografia ha avuto la rivoluzione documentale degli Annales, di Bloch e Febvre, si chiedeva – retoricamente – se la storia del design si fosse accorta di tale rivoluzione o ne avesse sfruttato le potenzialità. Suggerendo che ciò non era avvenuto, così spiegava la situazione complessiva del design italiano: «Una premessa è d’obbligo: tra la costituzione della disciplina del design e la sua storicizzazione c’è uno scarto temporale così ridotto da fornire già di per sé una risposta a questi interrogativi. Perché mentre Bloch spiegava a Febvre che bisognava destrutturare il documento e indagare le condizioni della sua produzione, il design stava lì lì muovendo i suoi primi passi a orientarsi tra le maglie non ancora del tutto chiare della produzione seriale. In questa che era una fase di costruzione il design doveva porsi prima di tutto come singolarità, come alterità, come “esterno” sia nei confronti dello stock complessivo delle merci rispetto alle quali si imponeva facendo valere un surplus di progettualità aggiunta, sia nei confronti della realtà artigianale rispetto alla quale proponeva un superamento facendo valere la logica dei grandissimi numeri. Il design si vedeva quindi impegnato a lavorare instancabilmente su una differenza per costruirsi un’identità piuttosto che dedicarsi allo smontaggio sistematico per rivelare segreti, meccanismi e senso. Doveva, in altre parole, “stare alto” e compensare quella perdita d’aura e di artisticità che apparentemente gli obblighi di riproducibilità meccanica gli imponevano con una eguale ed equivalente forza di celebrazione dei suoi protagonisti. Meno la materia del contendere diventava unica e irripetibile allontanandosi dallo statuto dell’arte, più queste caratteristiche di unicità sarebbero state giocate sui suoi protagonisti, sugli ideatori del design. Utilissimo stratagemma in fase pionieristica quando bisognava associare cose a nomi per vedere riconosciuta una nuova disciplina» (ivi, p. 14),

Guarda quel che c’è dietro ad un oggetto…
volevi un museo, ne becchi otto

mari_museoNon ci attarderemo troppo a dire della mostra Annisettanta. Il decennio lungo del secolo breve* (Milano, Triennale, fino al 30 marzo 2008) che, secondo il comunicato, «non solo racconta la storia del periodo ma consente al visitatore di “farne esperienza” diretta». Visto che negli anni settanta siamo nati e abbiam vissuto i nostri primi anni non ci sarebbe dispiaciuto conoscerne e capirne qualcosa. La mostra aspira a trattare di conflitti, mutazioni, saperi, visioni, mitologie. Ma la storia è tradotta in liste di date (fra l’altro in vari casi non leggibili a causa della posizione dei pannelli), il resto in affastellarsi di nozioni e (presunte) suggestioni. E l’esperienza è piuttosto confusa; d’altronde, va bene che furono anni “confusi”, o meglio complessi, ma la lettura che ci si incarica di fare a distanza di tempo – si suppone con il filtro storico e critico – generalmente dovrebbe aspirare proprio a far chiarezza in ciò che, allorché vissuto, pareva confuso. Appunto, però, qui si punta a far fare l’“esperienza”, e si rimane nella confusione; a partire dalla prima sala, con schermi che proiettano immagini d’epoca (a colori o in b/n) mentre l’audio propone brani dissociati e altri rispetto alle immagini. “Girovagando” fra gli spazi allestiti – ché altro non si può fare, non potendosi certo parlare di percorso espositivo, salvo pensare che sia volutamente in tema, ergo confuso – pare poi che esperienza comune fosse trovarsi nel buio con puntati contro i fari di un’Alfa Romeo, di cui altro non si riesce a vedere. E che gli artisti fossero alla ricerca del bello, anzi La fabbrica del bello. Che il design fosse il Kar-a-sutra di Mario Bellini (dev’essere un omonimo di quel Mario Bellini che ha curato la “messa in scena” dei 2834 mq della mostra), accanto solo all’habitat for two people di Gaetano Pesce e ai progetti di Riccardo Dalisi. L’articolazione e la varietà sono ridotte a moltiplicazione indifferenziata: la letteratura è solo una serie di scansioni di pagine di libri (attribuite – mediante frecce tracciate malamente con pennarello rosso – a una serie di autori del periodo), la musica è una serie di copertine di dischi in vinile, il teatro una serie di sagome d’attori, il cinema erotico una serie di manifesti un poco strappati, la stampa una serie di copertine di riviste o pagine di giornali (peraltro difficilmente leggibili, così come sono messe su striscioni pendenti), i fumetti e l’illustrazione una serie di copertine, piccole o grandi… Fra queste vediamo “Il Male”, e allora ci viene in mente che per sentire e capire il periodo sarà decisamente meglio leggere e sfogliare un libro come quello di Vincino, Il Male. 1978-1982. I cinque anni che cambiarono la satira. Soprattutto laddove – sempre girovagando – ci troviamo poi di fronte all’opera dell’artista incaricato di interpretare il rapimento di Moro, artista al quale non è venuto di meglio in mente che realizzare a grandezza naturale la cella in cui Moro fu rinchiuso – di fronte alla quale è abbastanza immediato l’istinto di chiudervi dentro qualcuno, e non sarà difficile immaginare chi…Ma avevamo detto che non ci saremmo attardati, per cui smettiamo qui. Chi vuole spendere i suoi euro vada e veda. Per ora, fra l’altro, il catalogo non è disponibile.Siccome tuttavia qualcosa di buono per se stessi si trova sempre, o quasi, nella sezione design si trova la riproduzione di un progetto di Enzo Mari in relazione a quel che può essere un museo del design; in realtà – non sappiamo più se per nostra incuria nel guardare – non abbiamo trovato indicazione della fonte. Certo è che si tratta di riproduzioni di pagine d’un quaderno o libro. Poiché il catalogo della mostra, come detto, non c’è, e com’è buona regola nelle nostre esposizioni e nei nostri musei non è lecito scattare fotografie (caso mai si volesse pigramente rubar le idee), ci siamo fermati a ricopiar i testi delle tavole nel nostro taccuino. (Qualche giorno fa è comparsa in “Newsweek” la “notizia” che secondo alcuni studi la scrittura a mano rende i bambini più intelligenti; a questo proposito aggiungeremmo che nell’epoca in cui ogni risorsa pare accessibile si deve star più attenti a coltivare quegli strumenti che ci assicurano l’accesso autonomo a quel che veramente interessa, se non vorremo ritrovarci a interessarci e a ricevere solo quello che altri per noi decideranno ci debba interessare e pervenire). Mari cominciava così:«Capire com’è fattoRaccontava a Pinocchio il buon Geppetto (designer mica male) “Caro il mio burattinonel museo del realeguarda quel che c’è dietro ad un oggetto: designer / tecnicista / venditore/un mucchio di operai /anche il consumatore /e, pieni di pensieri,banchiere e imprenditore:i due progettatori, quelli veri.Fai pure il museo ermetico:poi trovi il museo estetico, geometricomimetico, politico ed estatico:ma sta al centro il museo paradigmatico:scorbutico e patetico.Buffa cosa un oggetto:qui volevi un museo,ne becchi otto.”» A questo componimento seguono le tavole disegnate da Mari con i progetti per otto diversi musei che potrebbero essere allestiti, guardando dietro all’oggetto, ciascuno con le sue caratteristiche:- Museo dell’ermetico: presenta al centro di una sala vuota, sopra un piedestallo l’oggetto, un “frullapatate”, con tanto di didascalia «Frullapatate disegnato nel 1979 da Ugo Nespolo prodotto dalla Frullor Biondate, Milano»;- Museo del designer: mostra invece una «selezione del processo progettuale del designer (u. Nespolo)», con disegni sotto vetro e modelli;- Museo del direttore delle vendite: che però è detto essere «in elaborazione», e infatti presenta la stanza vuota, solo con qualche appunto e parola chiave: manifesto, carosello, imballaggio, carta geografica con bandierine, ricerca punti vendita, altro;- Museo del tecnico: con le riproduzioni del frontespizio di un brevetto americano e di una inserzione di giornale: «Ditta espansione cerca direttore produzione laurea tecnica età massima 35 ottima esperienza settore elettrodomestici INDISPENSABILE ADEGUATA PADRONANZA LINGUA INGLESE rivolgersi FRULLOR CP 00462 Biondate»; al centro inoltre è previsto un pannello «portacampioni con minuterie metalliche e i finimenti, con paraocchi, di un cavallo»;- Museo del banchiere e (sotto nella stessa tavola) Museo dei pensieri del vero progettista; il primo è concentrato nel seguente pensiero: «Non importa che cosa si progetta come lo si realizza e a che cosa serve: uno solo è il nostro progetto, gli utili»; l’altro si articola in diversi pensieri, attribuiti a tal Ludovico Ilmoro «42 anni laureato alla Bocconi. Eredita la fabbrica fondata dal padre, ex coltellinaio, e la porta a 230 addetti. Produce articoli casalinghi. Finanzia una galleria d’arte. Adora Dario Fo. È sposato nell’ambiente. È in ufficio alle otto. Ha smesso di fumare»;- Museo dell’operaio: accanto a pannelli che parlano di “Qualità del lavoro”, “Qualità del salario” e “Qualità della vita”, presenta una serie di sagome sotto varie targhe (materie prime, semilavorati, componenti a catalogo, appalti, polverizzazione): «Questi sono i 100 operai che in molti luoghi e tempi concorrono alla produzione quotidiana di un frullapatate “FRULLOR”. Ad essi si aggiungono, in numero quasi uguale, altre componenti operative: impiegati, tecnici, apparato direttivo, qui posti tra parentesi»;- Museo del consumatore, che è stato riprodotto in grande all’interno della mostra: si tratta di 5 lapidi (?) in terra, ciascuna contraddistinta da un animale (lepre, leone, cane, gallina, topo) e ciascuna riportante il “pensiero” rivolto da un consumatore al frullapatate Frullor.Finito di copiare questi appunti per nostro uso, riprendiamo il nostro girovagare in mostra, prima di – come si dice – guadagnare l’uscita. Ci resta la domanda: che cosa c’era dietro tutto quanto visto?* Aggiungiamo una nota, ché leggendo oggi i giornali pare che non si debba più parlare di “secolo breve”; si veda l’articolo di Simonetta Fiori, Il secolo breve? Hobsbawm si sbaglia, in “La Repubblica”, sabato 10 novembre 2007, p. 42, riportato online qui.